In una scuola del centro Italia, una studentessa di 16 anni ha tentato di il suicidio – intenzionata a lanciarsi dal terzo piano – sfuggendo per un soffio alla tragedia grazie all’intervento repintino di una compagna e di un insegnante: “Non ce la facevo più, mi sentivo invisibile”, avrebbe confidato la ragazza dopo essere stata trascinata in sicurezza, secondo quanto riportato da alcuni testimoni.
Un episodio che rompe prepotentemente il velo di normalità e riporta alla luce ferite ancora aperte: il bullismo, l’isolamento, il peso di una società che spesso minimizza il dolore adolescenziale.
La scena è un pugno allo stomaco per chi crede che le aule siano esclusivamente luoghi di libri e interrogazioni: quella finestra spalancata, il corpo sospeso nel vuoto, le mani che si aggrappano disperate a una maglietta, immagini che riecheggiano in storie simili, troppe volte finite in cronaca nera.
Come la storia di Carolina Picchio, la quattordicenne morta nel 2013 dopo un video umiliante diffuso online, o il noto caso di Andrea Spezzacatena, il “Ragazzo dai pantaloni rosa” vittima di insulti quotidiani a causa di un lavaggio di jeans venuto male; la studentessa di ieri è l’ultimo tassello di un puzzle intricato di sofferenza che lega intera generazioni. Un grido soffocato dai pregiudizi, dalle risate crudeli dei compagni, dall’indifferenza di chi avrebbe dovuto vigilare.
Studentessa e suicidio: la scuola che non sa (o non vuole) ascoltare
La studentessa che ha tentato il suicidio nella giornata di ieri, è solo l’ultima di un lungo elenco: i dati del Ministero dell’Istruzione sono difatti impietosi e desolanti con quasi il 27% degli adolescenti che subisce bullismo, di cui l’8% cyberbullismo: “La scuola spesso sottovaluta”, denuncia il CNDDU, ricordando che le aule dovrebbero essere “presidi di umanità, non teatri di solitudine”.
Ma nonostante la drammaticità dell’episodio, emerge un barlume di speranza: la reazione immediata di chi ha scelto di non voltarsi, di quella compagna che ha riconosciuto il dolore dietro uno sguardo perso, quell’insegnante che ha corso senza esitazione.
Sono loro a rappresentare uno spiraglio in una società allo sbando, che ha smarrito il senso della comunità e come scriveva Pasolini: “La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.
Forse è ora di ripartire da qui: dall’ascolto, dai corsi obbligatori sulla salute mentale, da psicologi presenti in ogni scuola, per far sì che nessun’altra studentessa debba più considerare il vuoto come unica via d’uscita.