L’Italia è uno strano Paese dove le leggi di sicuro non mancano (siamo o non siamo la “patria del diritto”?), anzi abbondano oltre ogni limite nel tentativo – vano – di regolamentare ogni più minuto aspetto della vita sociale, ma anche dove le stesse leggi possono essere interpretate a piacere in base al principio che la libertà è sacra.
Sostenere che il niqab, il velo nero che la religione islamica più rigorosa impone alle donne per coprire il corpo intero lasciando scoperti solo gli occhi, sia una manifestazione di libertà è concetto duro da sostenere e comunque in conflitto con la legge 152/1975 (varata, cioè, quando l’immigrazione dai Paesi musulmani non costituiva ancora un problema) che vieta di coprirsi il volto nei luoghi pubblici.
Per motivi di sicurezza, non di discriminazione religiosa o di limitazione delle libertà individuali. Semplice e chiaro, eppure mezzo secolo dopo siamo ancora a dibattere sull’opportunità di applicare il provvedimento, in che modo, come e dove.
La recente vicenda dell’Istituto superiore “Sandro Pertini” di Monfalcone che concede il niqab in classe previo il riconoscimento, ad inizio lezioni, di chi lo indossa è emblematica del tentativo di salvare capre e cavoli in nome di una parola quasi magica, inclusione, diventata un mantra senza il quale sembra impossibile muoversi.
Da sempre terra di frontiera, in tutti i sensi, che nel corso della storia ne ha viste e subite di tutti i colori, la piccola provincia goriziana è diventata una delle principali porte d’accesso all’Italia per chi arriva via terra, con il corredo di una discreta integrazione da un lato e di uno strisciante conflitto sociale, culturale, religioso dall’altro, due facce della stessa medaglia che sempre caratterizza un territorio quando viene invaso in poco tempo da una popolazione profondamente diversa da quella originaria.
È la storia raccontata da un autore quasi dimenticato nonostante le sue glorie letterarie, Fulvio Tomizza, di cui Elio Pezzi ha ben scritto giorni fa su queste colonne.
Per tornare a Monfalcone, l’istituto scolastico ha chiesto e ottenuto un insegnante ad hoc nelle ore di palestra per evitare che l’attività ginnica metta in rilievo il corpo delle studentesse. Che tutto questo rappresenti l’integrazione nella società locale delle ragazze islamiche, spesso provenienti da Paesi dove la loro libertà anche in fatto di religione, è una leggenda metropolitana.
Semmai, la conferma di una libertà di scelta tale solo a parole. Eppure non si vedono manifestazioni di piazza per difendere la dignità di queste giovani donne, a volte giovanissime bambine; i partiti di sinistra, sempre pronti a gridare allo scandalo, se ne stanno ben coperti nel tentativo di guadagnare consensi, mentre ogni tanto salta fuori qualcuno che se la prende col crocifisso nelle aule perché offenderebbe la libertà di chi non è cristiano.
Fatto sta che Cristo in croce è nudo, mentre le ragazze sono ben coperte in aula e fuori: una contraddizione, in tempi di “fuori tutto” decretato nel nome della sacrosanta libertà di espressione.
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