Per gentile concessione del settimanale Vita, in uscita oggi, anticipiamo l’intervista al sociologo Bruno Manghi
Prima il pareggio con l’Uruguay poi la sconfitta col Messico infine l’eliminazione con il modesto Sud Africa. Queste le gocce che hanno fatto traboccare l’universo dei bleus. Anelka, causa spia nello spogliatoio, viene cacciato dal ritiro per ingiurie al ct, la vecchia guardia impone le formazioni, Domenech in balia degli eventi, Ribery si presenta in lacrime in tv per scusarsi, Gourcuff ostracizzato e confinato in panchina, Evra litiga con un preparatore che abbandona la squadra, le dimissioni di alcuni rappresentanti della Federazione, il presidente Sarkozy interviene duro sui giocatori, i giornali sportivi arrivano all’insulto negli editoriali e per concludere sciopero di tutti i calciatori che decidono di non allenarsi. Uno psicodramma degno di un romanzo. Ma è solo calcio? Forse no. Per indagare meglio un naufragio sportivo che sembra strettamente legato con la realtà sociale francese abbiamo intervistato Sergio Manghi, docente di Sociologia a Parma e autore di “Zidane, anatomia di una testata mondiale” in cui propone una chiave di lettura alternativa all’espulsione del capitano francese nella finale di Berlino.
Vita. Il tifo che i francesi riservano alla nazionale, contrariamente al composto motto “allez les bleus” è unico, carico di aspettative ed è una manifestazione della celebre grandeur…
Sergio Manghi. Sì, direi che tutto quello che fanno i francesi s’illumina di granduer, di un orgoglio nazionale molto forte che noi italiani fatichiamo a capire. Il nostro è una parodia. Ci crediamo e non ci crediamo. Il loro invece è una forma di pensiero e crea grandi aspettative. Per i francesi questa debacle è un disastro.
Vita. Ci sono gli immigrés de banlieue (Ribery, Gallas, Anelka ad esempio), i nouveau immigrer (Evra, Diarra, Malouda) e i bianchi “borghesi” alla Gourcuff. Una debacle figlia di una sorta di guerra generazionale?
Manghi. Ragiono su questi spunti per la prima volta. Effettivamente potrebbe essere una chiave di lettura interessante. Ci sono modi diversi, infatti, di dare valore all’orgoglio francese. Per la vecchia generazione il poter combattere per la Francia era un onore che si accompagna ad un risentimento non ammissibile. Gli Zidane vivono tra chi rappresenta la grande nazione e chi può assurgere a quel ruolo solo se molto vincente. Quando le cose vanno male, come oggi, sono sempre i primi a pagare. Un sistema che portava però ad un più forte orgoglio e a una ricerca di affermazione più rabbiosa. Le nuove generazioni di immigrati al contrario sono figlie di una società più europea e mondiale e per questo meno affamate. Con i “bianchi borghesi” la difficoltà è in realtà storica.
Vita. Sopratutto alla luce del fatto che la nazionale francese è tutto tranne che francese…
Manghi. Certo, come origini non c’è dubbio. Se guardiamo al paese è esattamente la stessa cosa. Si continua ancora ad alimentare il mito della Grande Francia ma, per esempio a Parigi, la popolazione extracomunitaria ha superato quella francese. Ma non solo, se guardiamo al succedersi dei presidenti passiamo dalle figure di De Gaulle, Mitterrand e Chirac a Sarkozy. Uno che non è di origine francese “pura”. Non solo dal punto di vista genetico ma neanche stilistico. Assomiglia più al nostro Berlusconi. È un figlio della società dello spettacolo, di una società europea o americana più che successiva alla caduta del muro di Berlino. Questo ha cambiato anche il modo di percepire l’immigrazione e l’essere immigrati. Da una parte sono più ovviamente parte del contesto, dall’altra però l’orgoglio, punto di riferimento anche per gli immigrer, si indebolisce un po’ per tutti. Probabilmente Malouda non è poi così un combattente come poteva esserlo Vieira. Ancor meno Gourcuff.
Vita. Ma perchè allora Zidane, leader e simbolo della vecchia guardia e della vecchia immigrazione, per altro tacciato di essere l’allenatore occulto, si è schierato con Domenech criticando la squadra?
Manghi. Perchè secondo il suo modo di pensare hanno sbagliato per davvero. Difende in qualche modo ancora quell’idea d’orgoglio secondo cui il mondo si ricorderà di questi mondiali per il vincitore e per la brutta figura della Francia. Qualcosa che ricalca gli scorsi mondiali. Ci ricordiamo il vincitore e l’harakiri transalpino. Questo autolesionismo è sempre a portata di mano perchè quando i francesi “non francesi” falliscono nel garantire la vittoria hanno i nervi più fragili.
Vita. La nazionale quindi, come da tradizione, è lo specchio del paese?
Manghi. Si, in particolare del rapporto del paese con l’immigrazione. Finché la nazione riesce a prospettare la possibile integrazione, com’è stato fino a 10 anni fa anche se erano già bugie, nell’immaginario c’era ancora il sogno. I figli poveri delle periferie erano già rassegnati, ma quelli di successo potevano immaginare di giocare un ruolo in questo melting pot senza tradire le periferie. Oggi diventa molto difficile non essendoci quasi più quel grande sentimento français.
Vita. Facendo un esercizio che col calcio non si dovrebbe mai fare, se ci fosse ancora Zidane in squadra sarebbe diverso?
Manghi. Ho l’impressione che uno Zidane ancora in forma e che deve rimediare alla brutta figura del 2006, forse avrebbe trovato la rabbia giusta per volersi rifare. Ma realisticamente non ha il fisico e non credo che con quello che è successo avrebbe gli stimoli giusti.
Vita. Questa è proprio una fantasia. Se volessi essere più relistici e pensassimo ad un suo ruolo come uomo spogliatoio, alla Beckham?
Manghi. Sì poteva essere un’idea. Ma bisogna fare i conti con il risentimento non ammesso dei suoi compagni abbandonati sul più bello. Si, ufficialmente c’è solidarietà, dicono di comprederlo e lo giustifiano. Ma in realtà un po’ di incazzatura c’è stata e c’è ancora. Ritrovare l’autorevolezza dopo quella testata non sarebbe stata una cosa facile. È vero che i francesi, quando c’è di mezzo l’orgoglio, sono capaci di raccontarsi delle bugie considerevoli. Avrebbero avuto la faccia tosta di dare la colpa di nuovo a Materazzi, trovando il nemico esterno e la compattezza. Mourinho ha imparato da loro.
Vita. In tutto questo Domenech sembra essere il principale colpevole. O forse lo è veramente.
Manghi. No sarà solo il capro espiatorio…
Vita. Bè lasciare a casa nomi come Ben Arfa, Benzema, Mexes o Nasri per portare sconosciuti come Gignac e Valbuena è una responsabilità…
Manghi. Che fosse uno strampalato e che facesse scelte imprevedibili si sapeva già da tempo. Lo hanno voluto tenere loro. Il rischio adesso è che tutti diano la colpa a lui. Un’altra semplificazione. Prima c’era un nemico esterno come Materazzi, adesso uno interno. Sempre per non dover ammettere che si può perdere. Evidentemente per l’orgoglio nazionale francese è inammissibile.
Vita. Lei dice che la testata del 2006 non è una banale reazione ma un voluto coup de theatre motivato dal terrore della sconfitta. Quel gesto verrà ricordato in eterno e dunque Zidane è vincente comunque. Oggi possiamo parlare di un colpo di teatro a livello collettivo?
Manghi. Quello che c’è in comune è la non banalità. Si può perdere. Ma c’è un modo di perdere che è comune. Perdiamo tutti nella vita. Poi c’è la sconfitta non banale di cui l’umanità si ricorda. Questa nazionale si vuole far ricordare in modo inconscio. Certamente non è un exploit ben riuscito come quello di Zidane, gesto che da un punto di vista estetico è stato bello ed elegante, anche per il momento in cui è stato fatto, sotto gli occhi di tutti. Oggi è più una caciara. Però rispetta l’idea narcisista francese: una bella sconfitta cancella il fatto che è una sconfitta. Questa è la grandeur. La non banalità. Il non rassegnarsi al banale. Se dobbiamo perdere dobbiamo fare molto rumore. Non possono perdere come il Togo o come l’Italia.