Corte Costituzionale: suicidio assistito non è diritto ma eccezione. Stato deve proteggere i fragili, non favorire la morte.
Alla Corte costituzionale il suicidio assistito sembra proprio essere di casa e, di fatto, è tra i temi che recentemente sono stati affrontati assai più spesso del previsto, cosa che testimonia la gravità del problema sollevato a livello della pubblica opinione.
Di fatto, anche oggi la Consulta si è espressa chiarendo una serie di punti che meritano la massima attenzione, proprio in questo momento in cui il Senato ha rimandato a luglio il dibattito sulla legge sul fine vita. Una legge che, come è noto, corre il rischio di diventare una sorta di liberalizzazione del suicidio assistito.
Inutile sottolineare che la decisione di rimandare a luglio il dibattito sulla norma, presa dalle due commissioni: giustizia e sanità, ha creato un’enorme tensione tra maggioranza e opposizione. È la prudenza della maggioranza è apparsa ignavia all’opposizione!
Ma la sentenza della Consulta, questa volta, aiuta a fare decisamente un passo avanti per comprendere meglio le conseguenze sottese all’approvazione di un’eventuale legge che apra le porte a una deriva eutanasica.
La Consulta, come ricordiamo, è intervenuta per rispondere a un quesito sollevato da quattro malati inguaribili, contrari al suicidio assistito; persone non soggette a trattamento di sostegno, che volevano difendere la loro vita nonostante la sofferenza e, per questo, avevano chiesto alla Corte di conservare il trattamento di sostegno vitale tra i requisiti previsti per la non punibilità della condotta di aiuto al suicidio.
La sentenza della Corte costituzionale pubblicata oggi, la n. 66 del 2025, sottolinea tre cose di estremo interesse, sia come risposta ai quattro pazienti che avevano sollevato la questione, sia, indirettamente, allo stesso Senato impegnato a scrivere la legge sul fine vita.
Primo: la Corte non ha mai voluto inserire nel Servizio sanitario nazionale l’obbligo di procurare la morte a chi ne faceva richiesta; non ha mai voluto assecondare – come se fosse un diritto – il desiderio di suicidarsi contando sull’assistenza di un medico e, comunque, a carico dello Stato.
La Corte costituzionale aveva invece parlato della possibilità di individuare, in via eccezionale, un’«area di non punibilità» nell’aiuto al suicidio, ponendo una serie di vincoli molto precisi. Tra questi, la dipendenza del soggetto da trattamenti di sostegno vitale, che comunque non potevano essere equiparati a un qualsiasi trattamento sanitario, come invece sta accadendo in alcune regioni italiane.
Secondo: la nuova sentenza afferma che non si può sovrapporre la libertà individuale, che potrebbe anche includere gesti estremi, con il dovere dello Stato, che rimane quello di proteggere la vita fragile.
Se si può immaginare che, in alcune circostanze, la libertà personale, per motivazioni che non si possono e non si vogliono giudicare, possa spingersi fino al desiderio di suicidarsi, questo non può rappresentare in nessun caso né un suo diritto né, tanto meno, un dovere da parte dello Stato.
Terzo: la nuova sentenza conferma come il principale dovere dello Stato sia la cura dei più fragili e non la loro soppressione; una loro presa in carico che deve essere generosa nell’intensità e nella diffusione, nella tempestività e nella competenza.
Non a caso le cure palliative sono così importanti proprio in questa fase della vita, non perché siano un’alternativa al suicidio, ma perché sono, di fatto, parte integrante del Servizio sanitario nazionale che, nello spirito della Costituzione, assicura cure gratuite a tutti per tutto l’arco della vita.
Tutto il contrario di quella potenziale cultura dello scarto, che lascia sempre più sole le persone quando versano in condizioni drammatiche e, per di più, facilita la loro morte.
In definitiva, l’obiettivo dominante del SSN e dell’intera rete dei servizi sociali è circondare tutti, e in particolare le persone più fragili, di un’autentica solidarietà e, proprio per questo, l’attuale sentenza della Corte ricorda le insidie e i pericoli di quelle leggi che, in modo sia pure non intenzionale, creano vere e proprie discriminazioni nei confronti dei più fragili.
Infatti, dove sono state approvate leggi sul fine vita che schiudevano la porta al suicidio assistito, si è presto creato un effetto valanga e i più colpiti sono stati i malati di Alzheimer, i grandi anziani, i depressi e perfino i più poveri.
Ossia quell’universo di fragili, che papa Francesco sintetizzava con l’espressione tipica della cultura dello scarto. Esattamente coloro che avrebbero avuto più bisogno di cura, di solidarietà, di accompagnamento.
La sentenza 66/2025 è un grosso aiuto anche per il legislatore, che non potrà non tenerne conto: la libertà individuale di chi desidera por fine alla propria vita non costituisce un dovere dello Stato; tutt’al più, a determinate condizioni, può rappresentare un’area di non punibilità.
Dovere dello Stato è curare, curare sempre e curare nel miglior modo possibile.