In Lombardia nelle scorse settimane – precisamente sul finire di gennaio – si è registrato il primissimo caso di suicidio assistito originato su spunta della sentenza della Consulta del 2019 in merito all’ormai famoso caso Cappato-Antoniani, il tutto eseguito in modalità (più o meno) autonomia dalla paziente che ha richiesto l’iniezione letale alla presenza di un medico di fiducia – questo indicato dall’associazione Luca Coscioni presieduta dallo stesso Marco Cappato – e con un farmaco fornito dal Sistema Sanitario Nazionale: quello della paziente 50enne (rimasta ovviamene anonima) per giungere al desiderato e richiesto suicidio assistito, però, non è stato un percorso affatto semplice dato che per nove lunghi mesi ha dovuto letteralmente combattere contro un sistema che remava in direzione opposta.
Partendo dal principio, come dicevamo già prima il suicidio assistito lombardo è legato alla sentenza della Consulta del 2019 che indicò una serie di requisiti affinché un paziente potesse ottenere l’iniezione letale – ma ci torneremo dopo – e fino ad ora (precedentemente al caso della 50enne protagonista di questo articolo) si erano registrati un totale di altri cinque casi sull’intero territorio; mentre nel frattempo la Toscana si è spinta oltre approvando pochissimi giorni fa la prima legge nazionale sul suicidio medicalmente assistito che riduce abbondantemente i tempi per il paziente che richiede la procedura.
Il caso di suicidio assistito della 50enne lombarda: tutto l’iter sancito dalla Consulta
Tornando al presente, il caso di suicidio assistito che si è registrato a fine gennaio è il primissimo in Lombardia e vede come protagonista una 50enne che da più di 30 anni era affetta da sclerosi multipla progressiva: l’iter per ottenere il farmaco era stato attivato già lo scorso maggio, mentre a luglio l’Azienda Sanitaria lombarda aveva verificato il rispetto di tutti i requisiti previsti dalla Consulta che vanno dalla conservata capacità della paziente di decidere per se stessa, fino alla presenza di una patologia irreversibili e degenerativa, passando anche per la sussistenza di dolori fisici e psicologici e dalla dipendenza costante da macchinari per il sostegno vitale.
Confermati tutti i requisiti, è toccato al medico di fiducia della 50enne validarne la richiesta per il suicidio assistito ed infine – dopo i nove mesi prescritti dalla sentenza nel corso dei quali si è in tempo per eventuali ripensamenti – a gennaio la paziente ha potuto ricevere l’iniezione letale alla presenza del medico dell’associazione – il dottor Mario Riccio – e di tutti i sui cari; mentre nell’ultimissimo messaggio lasciato la donna ci ha tenuto a chiarire che “la mia breve vita è stata intensa e felice“, vissuta con un grandissimo amore che non viene annullato dal “mio gesto di porvi fine”.