È scaduto ieri il termine entro il quale andavano depositate in Cassazione le firme necessarie per chiedere il referendum sul testo di revisione costituzionale riguardante il taglio al numero dei parlamentari. In realtà, la parola fine era già stata scritta venerdì, quando alla Corte sono arrivate 71 sottoscrizioni dopo un giallo durato qualche giorno. Già prima di Natale, infatti, erano state messe assieme 64 firme, ma improvvisamente, dopo l’Epifania, alcune di queste erano sparite. Strani crampi hanno colto le mani di un gruppo di parlamentari di Forza Italia legati a Mara Carfagna, una mossa che ha messo in pericolo il referendum rafforzando, al tempo stesso, la durata di questa legislatura.
Perché i “carfagnani” si sono ritirati? Il partito di Silvio Berlusconi non è mai stato favorevole al taglio dei parlamentari, un cavallo di battaglia grillino e perciò in nessun modo condivisibile dai fedelissimi del Cavaliere. Un certo numero di rappresentanti azzurri aveva dunque firmato a favore della richiesta di referendum per impallinare la riforma sottoponendola al giudizio popolare: hai visto mai che gli italiani, impermeabili ai cambiamenti, possano riservare alle modifiche costituzionali imposte da Luigi Di Maio lo stesso trattamento riservato nel 2016 alle riforme targate Matteo Renzi. Cioè, solenne bocciatura magari seguita dalla caduta del governo.
La Carfagna che ritira le firme va nella direzione opposta: evitare il referendum significa dare un via libera diretto alla riduzione degli eletti dal popolo (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori) e favorire il proseguimento di questa tormentata legislatura. Il passo successivo sarà infatti quello di varare una nuova legge elettorale e solo dopo si potrà andare a votare. Dunque, la decisione di questo gruppo di azzurri va a puntellare il governo giallorosso allontanando il rischio di dover abbandonare le poltrone sulle quali siedono gli attuali parlamentari.
Questa di una parte dei forzisti, dunque, è la prima piroetta. Che ne ha provocata una seconda, di segno opposto. La Lega, infatti, che fin dall’inizio della legislatura aveva votato a favore del taglio dei parlamentari – e così ha fatto anche dopo la caduta del governo gialloverde in agosto -, ha fornito le firme necessarie per andare al referendum, cioè per bloccare la riforma. Ribaltone forzista e controribaltone leghista, con tanti saluti alla coerenza politica nello sconcerto di tanta gente normale che in questo turbine di ripensamenti non ci capisce più nulla.
È chiaro che la mossa di Matteo Salvini non è un capriccio. Il ragionamento del leader leghista è stato questo: se si celebrerà il referendum, l’entrata in vigore della riforma costituzionale subirà un rinvio di qualche mese. In questo modo si aprirà una finestra per un eventuale voto anticipato in primavera, forse favorito dall’eventuale vittoria del centrodestra alle regionali di fine mese. I parlamentari, che tremano all’idea di perdere la poltrona dopo la riforma, potrebbero essere tentati di andare a votare subito perché si andrà alle urne con il sistema attuale, con speranze di rielezione indubbiamente più elevate. Speranze che sono condivise dai parlamentari di tutti gli schieramenti, benché nessuno lo possa ammettere.
Che un freno al taglio dei parlamentari sia interesse altamente condiviso, è confermato dal fatto che tra i 71 parlamentari firmatari pro referendum compaiono eletti di tutti i partiti, M5s compresi (nonostante l’ordine interno di segno contrario), tranne Fratelli d’Italia. Se dunque la Carfagna non voleva il referendum per prolungare la vita dell’esecutivo Conte 2, Salvini ha dato un contributo determinante per il motivo contrario, cioè per favorire la caduta del governo.
In questo complesso incrocio di interessi contrapposti e di cambiamenti repentini, per la Lega si inserisce anche il pronunciamento della Corte costituzionale di dopodomani, mercoledì 15 gennaio, su un altro referendum, proposto dal partito di Salvini, che chiede di abrogare il sistema proporzionale dalla legge elettorale. Come scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, cambiare tutto perché non cambi nulla.