TASSE E POLITICA/ Se il Conte-2 punisce le piccole partite Iva
Con il decreto fiscale e la manovra il 2020 si rivela amaro per le partita Iva. Il Governo avrebbe potuto scegliere politiche diverse

Passata l’Epifania, gli addetti ai lavori hanno potuto leggere piega per piega il decreto fiscale e hanno avuto conferma che la manovra 2020 porterà un aumento ulteriore della pressione tributaria (secondo l’Istat giunta al 39,2% del Pil, ai massimi da quattro anni). Emblematica – sul piano tecnico e politico – appare la cancellazione del regime di flat tax per 500mila partite Iva: quelle che cumulano redditi da lavoro autonomo con redditi da lavoro dipendente o da pensione superiori ai 30mila euro. La misura è stata introdotta (in extremis) dal Conte-2 per temperare il mantenimento del trattamento introdotto l’anno precedente dal Conte-1: l’estensione all’imponibile di 65mila euro dell’aliquota agevolata al 15% (ridotta al 5% per i primi 5 anni di vita di una posizione). Ne faranno le spese – è stato stimato – il 25% delle partite Iva finora beneficiarie: che vedranno aggravare sia il carico economico (con l’inclusione dell’imponibile nel regime progressivo Irpef), sia quello relativo agli adempimenti burocratici, legati alla tenuta di una contabilità Iva ordinaria.
Gli spunti di riflessione critica sono molteplici. Il più macroscopico appare anche quello che espone maggiormente il Governo giallo-rosso alla polemica politica, anche se alla radice la questione rimane squisitamente politico-finanziaria. In termini estremamente brevi e a rischio-demagogia: perché inasprire la pressione sulle piccole iniziative di lavoro autonomo “per finanziare il reddito di cittadinanza”? Perché disincentivare le forme di imprenditorialità minore o “a part-time”? Esse appaiono a maggior ragione importanti durante la lunga stagnazione italiana un importante momento di resilienza: perché frenare o vanificare gli sforzi degli italiani che cercano di cavarsela da sé?
Una motivazione politica (o addirittura ideologica) sarebbe già di per sé molto discutibile da parte di M5S-Pd-Iv-Leu. Ma probabilmente non è neppure giustificata sul piano elettorale. Un caso tipico di lavoratore dipendente che arrotonda è l’insegnante pubblico che fornisce ripetizioni: secondo alcune schematizzazioni classiche un probabile elettore del centrosinistra. Ma che dire dei pensionati (non certo “ricchi” se percepiscono 30 o 40mila euro l’anno) che s’ingegnano con qualche lavoretto?
In tutti i casi: la spinta all’evasione si fa più forte, con un effetto in direzione esattamente contraria a quella proclamata dal Governo. Sembra uno scenario orwelliano quello in cui lo Stato spinge con una mano il cittadino contribuente all’evasione nel mentre con l’altra gli agita davanti le manette. Ma è quello che in parte sta accadendo. Così come è lecito chiedersi quale ratio di politica economica vi sia in un “Leviatano” che cancella la cedolare secca per le locazioni dei negozi quando il piccolo commercio nazionale è già sotto la pressione massima dell‘e-commerce targato Amazon & C. Ammesso e non concesso che sia possibile imporre una web tax nazionale ai colossi digitali globali, quale sarebbe il saldo economico complessivo fra qualche centinaio di milioni in più in entrata per puntellare una spesa pubblica rigida e la chiusura di migliaia di piccole imprese commerciali?
A proposito di pressione fiscale e spesa pubblica: perfino Carlo Cottarelli (Premier incaricato per un giorno prima di Conte-1 & 2) ha detto al Sole 24 Ore che la chiave di una ripresa che non arriva mai è il taglio immediato di due punti della pressione fiscale “a parità di deficit”. Dunque: le tasse vanno tagliate – e non alzate – a imprese e lavoratori autonomi. E le risorse vanno cercate nella spending review che nessun Governo dal 2013 ha mai voluto affrontare. Con la Ue che – paradossalmente – ha deciso di essere più bonaria nei suoi richiami proprio con il Governo che ha varato la manovra di cui sopra.
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