Se ci fermasse ai commenti sull’ultima manovra economica con la Legge di bilancio per il 2020 non si arriverebbe molto lontano nel capire quale direzione abbia preso la politica fiscale. Per la maggioranza la pressione fiscale è stata ridotta, è stato evitato l’aumento dell’Iva che sarebbe scattato con le clausole di salvaguardia, è stato abbassato il cuneo fiscale in modo da aumentare il salario netto dei lavoratori. Per l’opposizione la manovra è stata “tasse e manette” dato che ha introdotto nuove imposte, ha aperto la strada al carcere anche per i piccoli evasori, ha cercato di racimolare risorse colpendo a destra e a manca dove possibile.
La verità non sta nel mezzo, ma sta da un’altra parte, soprattutto perché un giudizio sommario sarebbe sostanzialmente improprio. La manovra è arrivata all’approvazione finale dopo tanti piccoli aggiustamenti, con novità che si sono ridimensionate lungo il cammino, con scontri sotterranei tra la razionalità e l’ideologia.
Il dato di fondo tuttavia è che si è perso di vista la logica della politica fiscale che dovrebbe essere prelevare in maniera equa e semplice parte del reddito dei cittadini e delle imprese per finanziare i servizi che lo Stato fornisce in maniera il più possibile giusta ed equilibrata. Invece il fisco è stato visto come un’arma per combattere i privilegi, o i presunti tali come le auto aziendali (fino a quando qualcuno è riuscito a spiegare che le auto aziendali sono uno strumento di lavoro e non di piacere e che alzare le tasse avrebbe avuto ripercussioni negative ben maggiori del gettito atteso). Oppure per indirizzare in maniera salutistica le scelte dei cittadini tassando gli zuccheri perché fanno male alla salute. Oppure ancora per combattere l’inquinamento da plastica con nuove tasse sugli imballaggi. Tutti obiettivi, magari meritori, ma che nulla hanno a che fare con una corretta politica fiscale.
Il problema di fondo è che il sistema fiscale italiano è arrivato al 2020 non sulla base di un disegno realistico e organico, ma per approssimazioni successive, tentativi di semplificazione, aggiunte e modifiche peraltro senza alcuna stabilità: basti pensare che in tre anni il regime dell’Iva è cambiato tre volte.
Ma imboccare la strada per rendere il fisco “equo, giusto e solidale” non è facile e può assomigliare a un sogno come afferma nella copertina del suo ultimo libro Fabio Ghiselli, tra i maggiori esperti fiscali italiani: “Giù le tasse, ma con stile!” (Ed. FrancoAngeli, pagg. 234, € 25). La strada è complessa perché si parte da una situazione in cui “l’attuale complesso impositivo si contraddistingue per essere complicato e contorto con testi dei provvedimenti legislativi difficilmente leggibili e normativamente confusi”.
Le proposte si muovono lungo due direttrici. Da una parte migliorare per quanto possibile le condizioni in cui si trova a operare il fisco nel contrasto all’evasione: vanno in questo senso misure su cui si è lungo discusso come i limiti all’uso del contante. Dall’altra parte ripensare un modello di fisco in cui le imposte non siamo spezzettate in tanti piccoli o grandi segmenti, rendendo peraltro aleatoria in molti casi la progressività, ma organizzare un’imposizione sul reddito globale ponendo fine alla separazione attuale tra imposte sul lavoro e imposte sul capitale.
Senza addentrarci nei particolari tecnici, nelle proposte di Ghiselli, tutte particolarmente interessanti e correttamente provocatorie, si può trarre come conclusione che il fisco è una realtà troppo importante per la giustizia e la coesione sociale da essere lasciato nelle mani dei politici. Le ingenerose critiche ai “tecnici” al Governo hanno aperto la strada alla propaganda e all’incompetenza: una dimensione di cui l’Italia, che già non brilla come situazione economica, non ha certo bisogno.