Uno spettacolo che lascia senza fiato (due ore senza intervallo) la Fedra di Jean Racine, nella bella traduzione di Giovanni Raboni e con la regia di Federico Tiezzi, in scena al Teatro Strehler di Milano fino al 17 aprile. Innanzitutto per l’intensa e coinvolgente interpretazione di Elena Ghiaurov, una Fedra tormentata e consapevole, che conquista il pubblico.
Ma anche per la scenografia di grande impatto e fascino, con il morbido sipario dorato che resta chiuso all’inizio dello spettacolo, mentre risuonano le struggenti parole d’amore dell’aria di Bizet Je crois entendre encore, cantate dalla protagonista che danza sinuosamente.
Sipario che finalmente si apre su un ambiente buio, delimitato da quattro erme candide, dominato da due enormi eleganti lampadari e successivamente illuminato da fasci sottili di luce che inquadrano la scena. Sullo sfondo l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, immagine minacciosa del sacrilegio passionale.
Tiezzi ha scelto la Fedra di Racine del 1677, all’inizio dell’età moderna, non la versione classica di Euripide o Seneca in cui era determinante l’intervento di Afrodite nello scatenamento della passione incestuosa della regina. Per Racine il desiderio incontenibile ha un carattere “mostruoso” di sfida cosciente ai limiti, in cui la ragione tenta invano di controllare la travolgente attrazione. L’amore abbandonato alla forza dell’istinto porta inevitabilmente alla rovina, al caos e alla morte. E il dramma di Fedra sta tutto nella coscienza che riconosce la sua responsabilità morale.
Lo scandalo è innanzitutto la confessione di qualcosa che “non può essere detto”, che nella tragedia raciniana avviene attraverso i dialoghi strazianti tra i personaggi e i loro confidenti: Fedra e la nutrice Enone, Ippolito e il precettore Teramene, Aricia (l’innamorata di Ippolito) e la nutrice Ismene.
La modernità di Racine emerge con prepotenza proprio nelle riflessioni dei protagonisti, che cercano di dare dignità ai loro sentimenti contraddittori. Fedra rivela a Enone il suo desiderio vergognoso per il figliastro Ippolito, che cerca di reprimere senza riuscirci. Ippolito, cui era stato proibito l’amore per Aricia, riconosce il suo trasporto per lei parlando con Teramene. Aricia stessa confida il suo amore per Ippolito a Ismene.
Da questo momento si aprono nuovi scenari di audaci rivelazioni esplicite: Ippolito si dichiara ad Aricia e Fedra osa confessare a un inorridito Ippolito la sua tremenda infatuazione, quasi per riceverne la condanna e la maledizione. Ma giunge l’imprevisto: Teseo, re di Atene e marito di Fedra, creduto morto, è vivo e sta tornando. Per la regina non c’è via di scampo: è disonorata dalla sua confessione e teme che Ippolito la denunci, condannandola così a morte.
La soluzione viene proposta dalla “perfida” Enone: accusare Ippolito stesso di violenza sulla matrigna. Teseo le crede e manda in esilio il figlio innocente, che nulla farà per difendere il suo onore pur di non causare ulteriori sofferenze al padre. Ribadirà però la sua integrità svelando il suo amore per Aricia.
Quando poi Teseo incontrerà Fedra e le rivelerà l’idillio dei due giovani causerà ulteriore dolore alla regina, travolta dalla disperazione per la sua passione impossibile: Ippolito l’ha dunque rifiutata. Gli eventi precipitano con il suicidio di Enone, la drammatica fine di Ippolito dilaniato dalla potenza dei mostri marini e la lenta presa di coscienza della verità di Teseo.
Sarà infine la stessa Fedra a confessargli il suo abominevole sentimento, coperto invano dall’accusa infamante al figliastro, dopo aver assunto l’infuso venefico che le assicurerà a breve la morte. Dall’ira incontrollata Teseo passa così alla disperazione per aver perso un figlio innocente e ora vorrebbe scagliarsi con veemenza contro la donna che lo ha tradito, ma lei ha ormai trovato il modo di sottrarsi a un mondo orribile di menzogne e alla vendetta del marito.
La regina che aspirava alla purezza e all’innocenza, incarnate ai suoi occhi dallo stesso Ippolito, non è del tutto colpevole né del tutto innocente (così la descrive Racine nella sua Prefazione alla pièce): è coinvolta per destino e per la sua debolezza in una passione illegittima, di cui per prima ha orrore, in una consapevole e lucida autocondanna. È questa la modernità del dramma di Fedra, che suscita compassione e partecipazione profonde.
Sin dal suo ingresso in scena, è infatti decisa a morire, a scomparire dalla luce del giorno, ma ogni volta un evento nuovo la trattiene alla vita, e la sottrae a quel silenzio che invano sembra invocare. Fedra si vede vittima di una fatalità irresistibile: “Implacabile Venere, ti basta la mia umiliazione? Non potevi essere più crudele; il tuo trionfo è completo; tutti i tuoi colpi hanno raggiunto il segno”, il che tuttavia è in contraddizione con il suo senso di colpa. Ma il suo destino è inscritto già nella sua origine: è figlia di Minosse e di Pasifae.
Minosse, che per la sua probità assume dopo la morte la funzione di giudice degli Inferi, rappresenta il lato morale di Fedra; Pasifae, cui Venere ha ispirato l’amore mostruoso per il toro, da cui è nato il Minotauro, rappresenta l’onnipotenza del desiderio. Proprio questa duplicità è il tormento della regina e la causa della sua volontà di scomparire.
In Fedra tuttavia il concetto cristiano del peccato e la concezione del destino tipico dell’antichità si sovrappongono senza fondersi. Per lo spettatore di oggi resta il fascino oscuro di un destino inesorabile, che sembra imporsi sulle vicende umane anche sotto forma di sentimenti incontrollabili. Eppure, al di là dell’esito tragico della vicenda di Fedra, il suo tormento, così ben analizzato dall’autore, ci ripropone con nettezza la libertà di decisione propria dell’essere umano che, grazie alla sua coscienza, può riconoscere la sua vera dignità.
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