Per chi, come me, è nato ai piedi del Vesuvio – nello specifico a Pollena Trocchia – il rischio di un’eruzione o di un terremoto è una costante naturale. Fin da bambini impariamo a conviverci, a comprenderne l’importanza e a sentire sotto pelle i pericoli. Si tratta di una sensazione difficile da descrivere, perché questo tipo di consapevolezza entra a far parte del nostro quotidiano, condizionando le nostre abitudini e i nostri pensieri.
Ricordo, come se fosse ieri, le interminabili giornate passate a scuola ad ascoltare gli esperti, le visite all’Osservatorio Vesuviano, gli incontri di divulgazione: cosa fare in caso di terremoto? Dove non posizionarsi? Qual è la differenza tra un’eruzione effusiva e una esplosiva?
Possiamo dire che noi nati negli anni 80, figli del terremoto dell’Irpinia, siamo stati il punto di incontro tra la paura vissuta dai nostri genitori e il bisogno di comprendere e gestire quella condizione. Le generazioni che ci avevano preceduto si erano trovate impreparate a un evento così drammatico, mentre a noi è toccato raccogliere il peso delle loro paure e trasformarle in una nuova consapevolezza. Una consapevolezza fatta di attenzione ai segnali della terra, di memorie scolastiche legate alle esercitazioni e di riflessioni costanti su cosa fare in caso di emergenza. La paura che spinge a scappare lontano. La speranza di restare nella propria terra.
Ecco, questo è il substrato in cui siamo cresciuti e, partendo da queste premesse, vi scrivo le mie attuali preoccupazioni in merito alla crisi dei Campi Flegrei.
Nonostante le tante lezioni ascoltate su vulcani e terremoti, non sono di certo un geologo o un vulcanologo. Sono solo un semplice cittadino che, però, conosce bene le dinamiche sociali proprie dell’area vesuviana, napoletana e flegrea. Ed è proprio questa consapevolezza, maturata negli anni, che mi permette di comprendere le paure che oggi agitano la popolazione.
Le domande che si rincorrono sono sempre le stesse e, in fondo, comprensibili: cosa sta succedendo? Dobbiamo scappare? Cosa accadrà se la situazione peggiora? Chi proteggerà le nostre famiglie? Chi ci aiuterà a ricostruire la nostra vita se perdiamo tutto?
Questi interrogativi, profondamente umani, riflettono una paura radicata e collettiva. E proprio in questa caldera di emozioni si nasconde, secondo me, il vero pericolo: non tanto un’eruzione del Vesuvio o dei Campi Flegrei, o un forte terremoto, ma il panico. Un’emozione incontrollata che, se non gestita, rischia di trasformarsi in un disastro ancora peggiore.
Basta pochissimo per scatenare il caos in una popolazione stanca, esasperata e abbandonata a sé stessa. Una popolazione che, giorno dopo giorno, ha accumulato tensioni, preoccupazioni e incertezze. Quando ci si sente soli e privi di riferimenti chiari, ogni segnale, ogni scossa, ogni voce può trasformarsi in un detonatore emotivo incontrollabile.
Il vero pericolo non è soltanto l’evento naturale in sé, ma il modo in cui le persone reagiscono ad esso. Il panico può diffondersi più velocemente di una colata di lava, portando con sé scelte impulsive, fughe disordinate e decisioni che mettono in pericolo più vite di quante ne salverebbero.
A tutto ciò si aggiunge un’assenza pesante, quella di una classe politica e amministrativa che avrebbe dovuto costruire nel tempo una strategia efficace di prevenzione e gestione delle emergenze. Invece, ci si ritrova con piani di evacuazione frammentari, strutture spesso inadeguate e una comunicazione istituzionale poco chiara e inefficace.
In questo scenario, il graduale spopolamento delle aree più a rischio avrebbe dovuto essere un processo lento ma costante, basato su incentivi e programmi di rilocalizzazione ben studiati. Eppure, queste misure sono rimaste sulla carta, lasciando migliaia di persone ad abitare in zone altamente vulnerabili.
L’incertezza si trasforma così in paura. La paura in panico. E il panico rischia di diventare il peggior nemico da combattere.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.