Fino alla fine della Guerra fredda, in Medio oriente, il terrorismo di Stato era ovunque: Siria di Hafez al-Assad, Libia di Muammar Gheddafi, Iran degli Ayatollah, la guerra civile in Libano e Carlos. Nella regione, la mano degli Stati e dei loro servizi segreti era ovunque. Nel Medio oriente e per molti Stati che si sentivano (o erano) minacciati, il controllo di un gruppo terroristico e il suo pulsante di accensione e spegnimento erano quindi un’arma di deterrenza. Una fondamentale garanzia di anti-aggressione.
Poi la Guerra fredda finì, ne seguì il disordine globale e il mondo visse una (breve) era di iperpotenza americana. Ma ancora una volta dimenticata, la minaccia oggettiva del terrorismo di Stato è stata dissipata, abolita? Tutto infatti mostra che non lo è. Tre esempi dimostrano la persistenza di questa minaccia.
In Francia, 13 novembre 2015 (Bataclan e altri, poi Bruxelles nel marzo 2016): una catena di operazioni molto complessa, germogliata nella sola mente di delinquenti alcolizzati, drogati e ipnotizzati dalle sciocchezze delle litanie coraniche? Le Monde dell’11 novembre 2017 sottolinea: “Lungi dai recenti e rudimentali attacchi con coltelli o auto ariete, questi attacchi sono il risultato di una vera ingegneria jihadista, abilmente pensato a monte: un gran numero di kamikaze, ‘coordinatori’ remoti, una mezza dozzina di nascondigli e il sostegno di manine più o meno radicalizzate”.
Nessun esperto ufficiale sul campo crede per un secondo che sempliciotti come Abdeslam avrebbero potuto immaginare, organizzare e portare a termine un’azione così complessa; coinvolgendo, attraverso due continenti e dieci paesi, più di 130 attori o complici di 15 nazionalità diverse.
Teheran, agosto 2020: un normale insegnante di storia libanese e sua figlia vengono uccisi a colpi di arma da fuoco in una strada trafficata della città. Si tratta infatti di Abu Mohammed al-Masri, numero due di al-Qaeda, e di sua figlia Miriam, vedova di Hamza bin Laden, figlio di Osama. Chi è sorpreso di ciò non ha capito le regole intangibili del terrorismo mediorientale, che insieme formano una strategia indiretta tortuosa, ma di grande efficacia. Nessuno ha rivendicato o ammesso il doppio omicidio.
Più incredibile però è l’attacco al World Trade Center: la giustizia americana ha recentemente declassificato documenti di estrema importanza sull’origine e la logistica degli attentati dell’11 settembre 2001.
Per coglierne il significato reale è necessario partire da due punti fondamentali:
1. Mai nella storia del terrorismo un commando – anche suicida – ha operato senza una rete di supporto; soprattutto per operazioni massicce e complesse. I raggi X di dozzine di attacchi o azioni speciali dimostrano che agire senza logistica è impossibile.
2. In Medio Oriente, nessuna entità emergente, paramilitare o terrorista (islamista o meno) scompare rapidamente se non viene catturata e poi portata sotto controllo da uno degli Stati della regione (dalla Libia all’Iran). Questo teorema cruciale è valido dal 1975, l’inizio della guerra civile libanese, fino ai giorni nostri. Cercheremmo invano un controesempio.
Tuttavia, per quanto riguarda gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, i documenti declassificati su richiesta delle vittime di questi crimini o delle loro famiglie risponde chiaramente alla domanda che tormenta gli esperti dal settembre 2001: l’apparato logistico a supporto dei 20 terroristi dell’11 settembre non è stato individuato. Nessuno dei suoi membri che necessariamente vivevano e operavano negli Stati Uniti è stato mai identificato, perseguito, arrestato o processato.
Tuttavia, la realtà, la natura, l’ampiezza di questa rete logistica di al-Qaeda sono note a Washington dal 2002. Cosa stiamo affermando? Che questa rete logistica cruciale operava presso l’ambasciata saudita a Washington. Ecco alcuni estratti da queste pagine, una volta un segreto di Stato: “Negli Stati Uniti, i dirottatori dell’11 settembre erano in contatto e hanno ricevuto aiuto e assistenza da individui legati al governo saudita… Almeno due di loro sono, secondo fonti, ufficiali dell’intelligence saudita”.
Nel settembre 2020, un giudice di New York consente finalmente alle vittime di perseguire 24 funzionari o ex funzionari sauditi e rivela il nome (nascosto dal 2002!). Fra questi vi è Mussaed Ahmed al-Jarrah, capo dello staff del principe reale della famiglia al-Saud, allora ambasciatore del regno presso Washington.
Queste rivelazioni travolgenti sono state in gran parte ignorate negli Stati Uniti e in Europa. Coincidenza? I nostri mezzi di informazione sono spesso controllati (o pagati) da Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), a loro volta ricoperti d’oro dall’Arabia Saudita. Insomma questi fatti mostrano la realtà, la rilevanza e la pericolosità del terrorismo di Stato, che è ancora vivo oggi.
In effetti, dal Maghreb a Mindanao, la nebulosa islamista avrebbe potuto funzionare per quarant’anni senza alleanze o assistenza? Soprattutto, la jihad – un’arma di aggressione oltre che di deterrenza – non si presterebbe a mascherare le classiche lotte di potere, i conflitti ricorrenti?
Ignorare queste domande significa condannarsi all’impotenza. Chiunque abbia familiarità con la strategia indiretta del Medio Oriente sa che il terrorismo di Stato mira sempre a costringere il nemico al dialogo, a riportarlo, volontariamente o con la forza, al tavolo dei negoziati.
Non appena un attacco proviene dall’area mediorientale, il paese vittima deve quindi chiedersi subito: quale provocazione o colpa ho commesso? Chi potrà illuminarmi utilmente su questo? Un esempio tra gli altri: durante la guerra civile siriana, Laurent Fabius disse nel dicembre 2012 della milizia salafita-jihadista al-Nusra che “sul campo, stanno facendo un buon lavoro”. Tali osservazioni equivalevano a incoraggiare un gruppo chiaramente terroristico. Padroneggiare l’arte di tale decrittazione è più cruciale che mai.
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