È dal 2019 che i fratelli Russo, Anthony e Joe, cercano di liberarsi da un peso, ossia da quando hanno realizzato Avengers: Endgame, il secondo maggior incasso di tutti i tempi: fare un film personale, dimostrare di essere bravi anche fuori dal cappello dei Marvel Studios. Hanno fallito con i primi due tentativi (Cherry – Innocenza perduta e The Gray Man), falliscono anche con The Electric State, che pure dei tre sembra il meno peggio.
Tratto dal romanzo a fumetti omonimo di Simon Stålenhag, il film racconta di una realtà alternativa in cui, nel 1990, gli umani hanno vinto una guerra contro i robot che avevano preso coscienza delle loro esistenze e chiedevano più diritti; nel 1994, i robot sconfitti sono stati esiliati e sostituiti da macchine controllate direttamente dalla mente degli esseri umani che li comandano da visori, facendo fare loro di tutto. Qui, Michelle (Milly Bobby Brown) viene coinvolta da un vecchio robot in un’avventura alla ricerca del fratello, forse unico superstite della sua famiglia.
Scritto da Christopher Markus e Stephen McFeely e distribuito da Netflix, The Electric State è un’avventura fantascientifica che ribalta alcuni dei cliché della lotta tra umani e macchine, soprattutto nei confronti della recente ossessione per l’intelligenza artificiale, per ricordare come sia nella tradizione dell’uomo sfruttare e dominare, usare la propria intelligenza contro gli altri, facendo della propria coscienza l’arma impropria.
Per raccontare ciò, i fratelli Russo spendono 320 milioni di dollari per farne un’opera che sarebbe un ottimo film per ragazzi, divertente, emozionante, con icone robotiche interessanti, una coppia di attori efficaci (la controparte maschile è Chris Pratt) e alcuni ottimi comprimari. Lo sarebbe se i due registi avessero trovato il bandolo della matassa cinematografica nel realizzare The Electric State.
Il film infatti sembra non aver colto la differenza tra una graphic novel e il cinema e risulta terribilmente statico, privo di ritmo e di evoluzione, tutto concentrato sugli sfondi e il design dei personaggi digitali, ma incapace di far “muovere” le immagini, di farle vivere, di rendere vagamente interessanti le vicende che sta raccontando.
Più che un libro a fumetti, il film dei Russo appare una raccolta di bozzetti, di tentativi di arte digitale, privi di forza e spirito: si salva solo la colonna sonora di Alan Silvestri e la supervisione musicale di Manish Raval e Tom Wolfe, che scelgono un pugno di canzoni rock – dai Clash ai Judas Priest – fuorilegge che danno l’illusione della vita a una macchina alla quale hanno staccato la spina.
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