L’immersione nel Laurel Canyon avvenuta per lo splendido documentario da lui prodotto e condotto, Echo in the Canyon, ha inevitabilmente risvegliato in Jakob Dylan le atmosfere meravigliose di quel momento storico. L’ “eco” degli eroi di allora, la fine dei 60 e l’inizio dei 70, si avverte nei solchi del primo disco dei Wallflowers dopo una pausa di quasi dieci anni dall’ultimo lavoro, Glad is over, che a sua volta segnava il ritorno dopo un’altra pausa quella volta di 7 anni, seppur interrotta da due dischi da solista. Ma i Wallflowers più che una band vera e propria sono sempre stati una palestra di ottimi accompagnatori di quello che è sostanzialmente, come il padre, un songwriter.
I cambiamenti di formazione sono stati continui e adesso per il nuovo Exit wounds, con lui ci sono ancora una volta degli abilissimi strumentisti: Stanton Adcock, chitarra solista (bravissimo con i suoi tocchi di slide); Steve Mackey, basso; Lynn Williams, batteria, e Jimmy Wallace, pianoforte e tastiere. Ma soprattutto la presenza speciale della straordinaria Shelby Lynne, cantautrice e voce d’oro, per quasi tutto il disco.
Con questa band, Jakob Dylan si concede il lusso di una raffinatezza e eleganza inedite in precedenza, arrivando addirittura al lapsus freudiano di citare il padre (cosa mai fatta prima) nell’iniziale Maybe your heart’s not in it no more. Ma altri sono gli spiriti che vagano e si odono in lontananza, dal Jackson Browne degli anni 70 al Tom Petty autore di ballate preziose.
In realtà Petty è sempre stata una presenza fissa nelle sue canzoni, un grande amore dovuto anche a motivi familiari, avendo il padre suonato con lui in due dei suoi tour più riusciti e avendo avuto l’opportunità ancora ragazzo 15enne, di vederlo all’opera da vicino seguendo quei tour. “Era lì quando ho iniziato a scrivere canzoni e, in un modo o nell’altro, la sua musica è sempre stata nella mia vita. Non era uno di quegli artisti che mi piacevano e che andavano e venivano ma una costante” dice.
Alla fine tutto questo si somma in maniera efficace senza alcuna pretesa, se non quella di produrre buona musica, intima e meditabonda, come si addice per un uomo che ha ormai 51 anni: “La vita è dura, è una lotta. Non importa dove ti trovi, quanto successo o quanto denaro hai, alla fine della giornata ti ritrovi ancora a letto da solo con i tuoi pensieri, i tuoi demoni e i tuoi sentimenti. Tutti noi dobbiamo lavorare con quello che abbiamo, ma mi sento più a mio agio quando ho queste discussioni con me stesso attraverso le canzoni” ha detto in una recente intervista.
Il disco che ne risulta ha un sound radicato e americano con una profonda enfasi sul songwriting e sulla melodia. Canzoni calde e lussureggianti con la voce di Dylan che si trova in modo confortante sopra al mix. Ed è come ritrovare un vecchio amico, capace di consolare e entrarti dritto nel cuore, che è sempre stata la sua capacità migliore.
Maybe Your Heart’s Not In It No More apre il disco con un ondeggiamento rock alla Tom Petty e Dylan con le armonie vocali condivise nel ritornello con la meravigliosa Shelby Lynne. La stratificazione di chitarre acustiche, pianoforte e slide guitar portano la canzone ad un altro livello, con quel minimo accenno che traspare nella sua voce. Ancora Tom Petty e il ritmo delizioso di certe ballate californiane fine anni 60 nella splendida I Hear the Ocean (When I Wann Hear Trains), melodia accattivante, chitarre acustiche ed elettriche che si intrecciano sulla base di un Hammond spumeggiante.
Atmosfere del New Jersey traspaiono invece in The Dive Bar In My Heart, un piccolo cenno a Springsteen e ancora Bob Dylan, dove emergono un’energia e un’intensità emotiva senza riff di chitarra in prima linea. “Ora il mondo intero è sveglio/ E ho dormito troppo/ Nel bar nel mio cuore”, canta Dylan in questo brano introspettivo. Darlin’ Hold on è un duetto dove Dylan e Shelby Lynne si alternano nelle strofe, dimostrazione della maturità assoluta che ormai Jakob ha acquisito nel comporre. Move the river spara forte un groove funkeggiante e spagnoleggiante allo stesso tempo, dove ancora una volta la voce del cantante fa breccia nel cuore dell’ascoltatore portandolo nei meandri di una visione apparentemente deprimente (anche qui Shelby Lynne è presente nei cori): “Vedi le torce su una barca scassata/ Di una nave fantasma senza alcuna guida/ Non c’è modo di aggirarla”.
Struggente e bellissima la ballatona I’ll Let You Down (But Will Not Give You Up) con uno squisito ritornello armonizzato in cui ancora Shelby Lynne gioca un ruolo determinante.
Unica eccezione al rock più ritmato di matrice indie è l’energetica e divertente Who’s That Man Walkin’ Round My Garden. E’ un petardo che esplode all’improvviso, traboccante di un’energia alla Stones. Poco meno di 3 minuti, è un gioco, una esplosione di energia ottimista.
Il disco si conclude con un’altra bella ballata, The Daylight Between Us, impreziosita da tocchi di slide alla Jackson Browne, riportando tutto nell’eco di un canyon che è nel cuore di tutti noi che abbiamo amato quella stagione.
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