Thomas Quick per anni ha sognato di essere il più spietato serial killer d’Europa e per un certo periodo è riuscito a convincere la giustizia, autoaccusandosi di 39 delitti compiuti in 20 anni. Thomas fu arrestato nel 1991 ma fu condannato solo per otto degli omicidi che confessò. oggi è un uomo libero, ha una nuova identità, vive in un posto segreto dove nessuno può riconoscerlo e a Corriere.it, ripensando alle famiglie delle vittime, dice: “Rispetto il loro dolore, sono profondamente dispiaciuto per quanto è successo. In questa storia, però, sono una vittima anch’io”. Il vecchio Quick non c’è più e lui per primo ammette di non prendere più da tempo psicofarmaci e stupefacenti. Tutto ebbe inizio con una sua rapina in banca, travestito da Babbo Natale: lui si definiva malato di Aids e con poco tempo da vivere, ma non era vero. Il nome Thomas Quick (Thomas da quella che lui definì la sua prima vittima, Quick dal cognome della madre) lo scelse quando gli fu concesso il ricovero in una clinica psichiatrica nei pressi di Stoccolma al carcere. All’anagrafe, però, è Sture Bergwall. Nella clinica l’uomo, all’epoca 41enne, raccontò agli psichiatri le molestie subite da bambino da parte del padre che aveva poi ucciso un suo fratellino. Le sue parole però non trovarono alcun riscontro. Più tardi, nel 1993, confessò il suo primo presunto omicidio che divenne ben presto la soluzione ad uno de grandi gialli del Paese: la scomparsa nel 1980 dell’11enne Johan Asplund. Thomas dichiarò di aver smembrato il corpo e in parte mangiato
THOMAS QUICK: LE PRIME CONFESSIONI
Dopo la prima confessioni ne seguirono altre: Thomas Quick rivelò di aver ucciso anche Therese Johannesen, 9 anni, in Norvegia. Fu addirittura portato in jet privato alla ricerca del corpo e quella non fu la sola spedizione. Per ogni delitto confessato, Quick, considerato il “mostro di Svezia”, conduce i poliziotti sul presunto luogo del delitto affermando ogni volta, con freddezza, di aver ucciso o sepolto qualcuno. Nonostante le mille incongruenze emerse dai suoi racconti, gli inquirenti vanno avanti senza dubbi. Poco alla volta arrivano i primi processi e le relative condanne ma con il passare del tempo iniziano ad emergere i primi dubbi da parte dei parenti delle vittime e dei cronisti che seguono i vari processi. Ad eccezioni delle confessioni dell’uomo, nei suoi confronti ci sono solo prove indiziarie. Stizzito dai dubbi a suo carico, decide di “protestare” e di non collaborare più con gli inquirenti, tornando persino al suo nome di battessimo. Un giornalista, Hannes Råstam, riuscì a parlare con lui comprendendo la sua totale follia. Intento a rivedere l’intera inchiesta, il cronista realizza un documentario choc e successivamente un libro sul caso del serial killer sbagliato. Morì poco dopo per un tumore al pancreas.
I DUBBI: CONDANNE ANNULLATE
Dopo lo scoop del giornalista, si iniziò ad aprire gli occhi sull’emblematico caso e poco alla volta tutte le condanne furono annullate. Dopo 23 anni Thomas esce dalla clinica psichiatrica da uomo libero. Per il fantomatico serial killer, si seppe solo più tardi, fu mal gestito dai medici della clinica che continuavano a imbottirlo di farmaci e davano come unica spiegazione alla mancata accettazione della sua omosessualità ai presunti abusi subiti dal padre. Le informazioni sui vari delitti, invece, Quick le apprendeva grazie al suo accesso alla biblioteca nazionale di Stoccolma ed il resto lo desumeva dal modo in cui gli venivano fatte le domande. Ci fu una sola prova materiale contro di lui: un piccolo ossicino recuperato nel corso dell’ispezione nel lago dove Quick si recò con il jet privato asserendo di aver gettato lì il cadavere della piccola vittima. Da una nuova ispezione è trapelato che si trattava di una scheggia di legno mista a colla e non di un reperto umano. Il vero dramma lo vivono i familiari di tutte le vittime che Thomas aveva ammesso di aver ucciso e che, ad oggi, ancora non conoscono l’identità dei rispettivi assassini o le cause delle drammatiche sparizioni dei propri cari.