Anche i Dik Dik hanno inciso una sua canzone (per la cronaca If I Were the Carpenter, diventata, con correttezza filologica, Se io fossi un falegname). Ma sicuramente Tim Hardin andava più fiero delle cover incise da gente come Rod Stewart e Robert Plant. La sua Reason to Believe è stata incisa da centinaia di artisti, tra cui il già citato cantante scozzese e poi, tra i tanti, Bobby Darin, Marianne Faithfull, Glen Campbell, Cher, Johnny Cash. Guadagni economici non da poco che però Tim Hardin spese quasi tutti in eroina, fino a morirne nel 1980.
Uno dei massimi talenti mai usciti dalla scena del Greenwich Village, la stessa di Bob Dylan per intendersi, negli anni 60, Hardin è stato vittima di demoni che non gli hanno permesso di veder riconosciuto il suo talento se non appunto attraverso le incisioni che dei suoi brani hanno fatto altri. Oggi quasi del tutto dimenticato, ci pensa un italiano a riportarlo alla luce. Mauro Eufrosini è nome noto del giornalismo musicale italiano, uno dei massimi esperti di songwriting americano, autore di numerosi progetti editoriali tra cui il volume della La storia del rock (Editori Riuniti, 2004) dedicato alla scena musicale che va dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, il cosiddetto folk revival, curatore insieme a Gianluca Testani de L’Enciclopedia del rock 1954-2004 (Arcana) e dei 10 volumi dell’Enciclopedia del rock (Gruppo Editoriale L’Epsresso, 2006).
Eufrosini ha scritto un appassionante “atto unico per voce narrante, chitarra e canto” dedicato proprio a Tim Hardin, “Long Tall Timmie che sapeva tutto dell’amore, le canzoni e i demoni di Tim Hardin”, con l’accompagnamento musicale di Roberto Menabò, chitarrista, cantante e scrittore attivo da trent’anni sulla scena blues e folk italiana (che ha inciso anche un apposito cd con diversi brani dello scomparso cantautore, una operazione molto riuscita, prodotto da Steve Cantarelli).
Lo spettacolo prevede un monologo dello stesso Eufrosini che presta la sua voce ad Hardin, che si confessa e si racconta nelle pieghe del suo intimo calvario, dall’al di là. La scena iniziale infatti lo vede intento a commentare l’omicidio di John Lennon, avvenuto tre settimane prima della sua morte. Una morte solitaria che Tim rievoca sul palco, cancellata da quella altisonante dell’ex Beatle. In diverse scene Hardin racconta la sua vita, per terminare di nuovo al momento del suo funerale. Il racconto si svolge attraverso tre diversi registri (narrazione, musica, inserti visuali). “I demoni personali del cantautore si confondono con la sua carriera artistica, in un flusso”, spiega lo stesso Eufrosini, “di coscienza candido e impietoso che si doppia tra la narrazione in prima persona e l’esecuzione delle sue canzoni più celebri”.
Un racconto, quello di Eufrosini, appassionante, a tratti commovente, che indaga senza cedere ad alcun sentimentalismo, fortune e sfortune della sua vita: “Sono magiche le canzoni. Hanno mille vite, ti sopravvivono. Tu le scrivi e le rinchiude in un disco, in un nastro, ma loro ti hanno già lasciato. Hanno intrapreso una propria vita. E così come ti hanno abbandonato, allo stesso modo, senza dirtelo, possono tornare e raccontare di te una storia diversa” dice Eufrosini/Hardin. Ed è così. Non c’è modo migliore di scoprirlo che con le sue canzoni.
Uno spettacolo che speriamo di vedere presto in giro per il nostro Paese (per info: [email protected]).