Sei anni fa erano insieme al governo nell’alleanza gialloverde, oggi sono uno al governo e l’altro all’opposizione. Ma una curiosa coincidenza ha voluto che ieri i due partiti fossero contemporaneamente al centro della giornata politica. Uno, la Lega, con il congresso del partito a Firenze che rieleggerà per la terza volta Matteo Salvini segretario; l’altro, il M5s, in piazza con i pacifisti, la sinistra di Avs e una parte del Pd. Due percorsi divergenti ma che appaiono accomunati da una costante: il no alle guerre e al riarmo.
Questo elemento comune, tuttavia, non deve ingannare. Anche le posizioni contrarie alla guerra dividono profondamente i due ex alleati di governo. La piazza pentastellata ha riunito personaggi pro Putin e pro Zelensky, gli avversari dell’attuale esecutivo (“mettete Meloni nei vostri cannoni”, si leggeva ieri sui cartelli) ma anche di quella parte di sinistra che fa capo a Carlo Calenda. Un calderone in cui a pagare dazio è l’ispirazione originaria del movimento fondato da Beppe Grillo, un contenitore giustizialista e antipolitico che conquistando il potere per una legislatura, ha subìto una mutazione genetica fino a diventare il cocchiere del potente di turno.
È il destino di chi parte contro il sistema e finisce per aderirvi, come dimostra per esempio il fatto che cinque anni fa il M5s fu determinante per blindare il primo mandato di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea e si prestò ad un ribaltone ordito dal Colle, rimanendo al governo con un nuovo alleato: il Pd. E oggi “Giuseppi” Conte usa Trump per combattere la Meloni.
Matteo Salvini ha intuito da ben prima delle presidenziali americane il potenziale dirompente di Donald Trump, fautore della pace in Ucraina, e ieri ha intervistato personalmente, in videocollegamento, Elon Musk. Il quale ha consegnato al popolo del Carroccio uno scoop niente male: cioè la conferma che i dazi degli Stati Uniti sono un mezzo, non un fine. Essi vengono applicati con un obiettivo strategico, ridurre il deficit commerciale degli Usa e rimpatriare le aziende emigrate, nel ventennio d’oro della globalizzazione, nell’impero mondiale del lavoro a basso costo (la Cina). Non sono, i dazi, uno strumento di “guerra”. Ma di pressione sì: per negoziare e aprire una nuova era di relazioni e di trattati bilaterali. “Spero che gli Usa e l’Europa riescano a realizzare una partnership molto stretta, c’è già un’alleanza ma spero sia più stretta e forte”, ha detto Musk. “E riguardo ai dazi ci sposteremo in una situazione di zero dazi nel futuro, verso una zona di libero scambio”.
Quanto invece al pacifismo, quello della Lega è una costante: basterebbe ricordare il “no” pronunciato contro l’intervento della Nato in Libia nel 2011, al quale invece era favorevole Silvio Berlusconi allora ancora a Palazzo Chigi. Oggi il Carroccio dice no al riarmo europeo, una politica di riconversione e risanamento della disastrata industria tedesca che si vorrebbe legittimare con la presunta emergenza difensiva dell’Europa e il sostegno “fino alla vittoria finale” del regime di Kiev.
Oggi la posizione prudente e attendista della Meloni riflette molto di più le preoccupazioni leghiste che non l’europeismo incrollabile di Antonio Tajani. Il presidente del Consiglio, quando sostiene che non bisogna ribattere ai dazi con altri dazi ma negoziare a tu per tu con Trump, e che occorre sospendere il Patto di stabilità, guarda più alla Lega che a Forza Italia, la quale invece preme per schierare il governo italiano interamente dalla parte di Bruxelles. “La Lega è il collante, il governo avrà vita lunga”, ha garantito ieri Salvini.
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