Trump incontra Al Sharaa e sospende le sanzioni alla Siria. Dietro ci sono i legami USA con i sauditi e i Paesi del Golfo, ma soprattutto con la Turchia
L’incontro è avvenuto a Riyad. Un faccia a faccia, quello tra Donald Trump e Al Sharaa, nuovo leader della Siria, che ha sancito il sostegno USA al rilancio del Paese, ancora alle prese con pericolose divisioni interne, foriere di violenze e massacri, ma attivissimo nella ricerca dei contatti giusti per accreditare a livello internazionale il nuovo governo targato HTS, che deve farsi perdonare i trascorsi fondamentalisti.
Dietro questa iniziativa statunitense, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, c’è il triangolo Turchia-Arabia Saudita-USA e il progetto di un grande corridoio commerciale che dal Golfo arriva fino al porto di Mersin, in territorio turco. Ma soprattutto la linea diretta fra Erdogan e Trump, che starebbero collaborando anche per trovare una soluzione a Gaza, nel tentativo di ridurre a più miti consigli Netanyahu, sempre orientato (anche in Siria) a iniziative che comportino l’uso della forza militare.
Come mai Trump ha concesso addirittura un incontro ad Al Sharaa?
Il viaggio di Trump nei Paesi del Golfo e l’annuncio della revoca delle sanzioni sulla Siria segnalano una triangolazione importante tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia. Strategicamente l’obiettivo, comune a tutti e tre, è quello di marginalizzare il più possibile il grande competitore regionale, cioè l’Iran. Su questo c’è una convergenza di interessi. Per gli americani è uno Stato-canaglia, per i turchi un Paese amico-nemico ma comunque da cui guardarsi, per i sauditi un rivale storico. Un contesto in cui conta molto lo scontro ideologico tra sunniti (come sono Turchia e Arabia Saudita) e sciiti (Iran, appunto).
Quanto contano nella scelta del presidente americano di aprire alla Siria i rapporti USA-Turchia?
La convergenza di interessi geopolitici è supportata anche da rapporti personali molto stretti. Trump parla con favore di Erdogan, lo definisce un leader molto capace, che sta gestendo molto bene la situazione in Siria e nella regione. Certamente il ruolo della Turchia è fondamentale, è percepita come attore in grado di stabilizzare l’area mediorientale e non solo, come dimostra anche il possibile incontro a Istanbul fra russi e ucraini previsto per oggi.
Perché gli statunitensi si affidano alla Turchia?
Gli Stati Uniti hanno un problema di leadership, non riconosciuta in certi settori, soprattutto mediorientali, dove lo spirito anti-America è forte. In questo quadro la Turchia, per la sua collocazione strategica e geografica e il suo ancoraggio alle istituzioni occidentali (è membro della NATO, nda), diventa un interlocutore fondamentale. Non per niente proprio nella settimana del viaggio di Trump nel Golfo è arrivato l’annuncio della sospensione da parte degli USA delle sanzioni nei confronti della Siria, dossier sul quale i turchi stanno lavorando molto da quando è caduto Assad. Un tema di cui Erdogan ha parlato anche con la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, all’ultimo summit intergovernativo.
Chi sta sostenendo Ankara nel rilancio della Siria e perché?
La Turchia punta a una ricostruzione sostenibile della Siria, Paese in cui ci sono gravi carenze a livello di elettricità e di altre forniture. L’obiettivo è la stabilità e a raggiungerlo concorrono anche Arabia Saudita e Qatar. Un ruolo importante lo hanno pure gli Emirati Arabi Uniti. Per capire i motivi dell’intraprendenza dei Paesi dell’area bisogna ricordare il grande progetto di connettività regionale della Development Road, proposto dalla Turchia in consorzio con gli Emirati e i Paesi del Golfo. Si tratta di un progetto infrastrutturale, con strade e ferrovie, per creare un corridoio commerciale che partirà dal Golfo, attraverserà il Medio Oriente per arrivare, come punto terminale, al porto di Mersin in Turchia, da dove partirebbero le merci verso i mercati europei, secondo una catena di approvvigionamento che potrà avvenire sia via terra che via mare.
Israele come si colloca rispetto a questo nuovo contesto regionale?
Ovviamente in tutto questo c’è la grande incognita di Israele, non del Paese in quanto tale, ma di quello guidato da Netanyahu, ancorato a una logica di guerra. Ultimamente Trump si è abbastanza scocciato del comportamento del premier israeliano, mentre il nuovo progetto americano su Gaza prevederebbe un cessate il fuoco sostenibile, previo ritiro definitivo delle truppe di Hamas. Un dossier sul quale la Turchia fa da sponda: il dialogo con Hamas è sempre stato fitto e regolare, tanto che l’organizzazione palestinese ha ringraziato Ankara per il suo ruolo di mediazione. Quello che salta all’occhio, insomma, è questa linea diretta, un filo rosso, fra Stati Uniti e Turchia a livello regionale.
L’avvicinamento USA-Siria, quindi, Israele come lo vede? In fondo Al Sharaa si sarebbe detto disponibile a un patto di Abramo con Tel Aviv, a una pacificazione. Il problema è che in questo momento Netanyahu non sembra intenzionato a fare veramente la pace con nessuno.
Il premier israeliano non vuole fare la pace con nessuno perché tutto si tiene. Nel momento in cui verrà stabilizzata la situazione, in Siria ma anche a Gaza, Israele dovrà smettere di avanzare e di bombardare il territorio siriano, dove recentemente Ankara e Tel Aviv non dico che hanno rischiato lo scontro, ma erano arrivate ai ferri corti. L’intervento degli USA in questo è stato fondamentale. Gli obiettivi di turchi e americani, insomma, sono congiunti. Anche la Turchia non ha problemi con Israele in sé, ma con questo governo israeliano. Creando le condizioni per sistemare le cose a Gaza si cercherà anche di mitigare le posizioni di Netanyahu.
Quanto ai rapporti USA-Siria si è parlato della possibilità che gli americani accedano al petrolio e alle risorse naturali siriane. Trump punta anche a questo?
Questo non emerge da tutte le fonti, ma ovviamente è un dossier caldo, lo è sempre stato quando si parla di presenza americana in Medio oriente. Non stupirebbe che anche questa amministrazione americana punti alle risorse. Sarebbe un approccio in chiave business, come è stato quello che ha portato all’accordo USA-Ucraina sullo sfruttamento delle materie prime. Gli Stati Uniti si muovono quando hanno anche un tornaconto.
(Paolo Rossetti)
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