Rispettabili lettori mi siete testimoni che io l’avevo già detto che bisognerebbe studiare di più, senza pregiudizi, il sistema economico del Terzo Reich. Quando si parla del nazismo si evoca sempre, e giustamente, la sua politica razziale, ma difficilmente si considera la sua politica in campo economico. Ora, dopo l’inizio della guerra dei dazi, per iniziativa di Trump, pur ovviamente tenendo conto delle grandi differenze anche di periodo storico, mi pare sia avvenuto il momento di dare un’occhiatina agli affari di Adolf Hitler. Nella Germania nazista esisteva, a differenza dell’Unione sovietica di Stalin, la proprietà privata e quindi anche l’industria privata. Tutto era, però, sotto il rigido controllo della Bundesbank, a cominciare dal commercio con l’estero. La stessa produzione nazionale era sempre più indirizzata al programma del riarmo di una Germania che era uscita umiliata e militarmente indebolita dalla Prina guerra mondiale.
Il nazismo garantiva sì la fine delle lotte sociali, anch’esse frutto del disastro della guerra, ma in cambio pretendeva di dirigere un’economia sempre più autarchica, secondo i suoi progetti. Certo, l’industria, naturalmente soprattutto quella bellica, poteva produrre, doveva produrre, ma il commercio con l’estero doveva essere orientato a favorire il progetto della Grande Germania.
Deutschland, Deutschland über alles… America first….
Nei nuovi orientamenti di Trump, si prefigura un sistema di produzione nazionale dove si devono produrre le cose che finora venivano prodotte in altri Paesi con salari di solito molto più bassi che negli USA. Ora non credo che gli operai di Filadelfia e del Midwest potranno accontentarsi di quanto finora prendevano quelli di Calcutta o delle Filippine.
Inoltre nei conteggi del dare-avere sui dazi il presidente Trump ha dimenticato che da molti anni gli Stati Uniti hanno importato, quasi gratuitamente, da molti Paesi, compresa l’Italia, anche manodopera altamente specializzata che ha fortemente contribuito allo sviluppo dell’industria americana.
Giovani promettenti che si sono preparati all’inizio in diverse università del mondo e che abili head hunters (cacciatori di teste) hanno importato negli USA. Così dopo un necessario periodo di adattamento e di perfezionamento sono anche diventati docenti di prestigiose università americane.
E qui, bisogna dirlo, non si può nascondere la grave responsabilità della Disunione europea, che non è stata in grado di fare altrettanto, se non in piccola parte.
Altra questione. I soldi dei dazi dove andranno a finire? Sono ovviamente una specie di super tassa che serve a ridurre il deficit dello Stato, ma che, se non sarà di nuovo investita in un modo intelligente, porterà ad un ancor più grave deficit nel campo dello sviluppo scientifico e industriale.
A giudicare dalle prime decisioni del governo americano sui tagli all’amministrazione pubblica, ma anche alla ricerca scientifica, c’è forse da temere un probabile regresso sul piano sociale. Tra l’altro il problema tocca anche l’Europa, che dovrà pur spiegare agli europei che cosa vuole fare dei soldi guadagnati dai suoi nuovi dazi, a meno che siano già destinati al riarmo.
È vero, ammettiamolo, noi non possiamo fare a meno, per tanti versi, dell’America, ma lei senza di noi, e altri, rischia di tornare all’epoca felice dei fuochi nella prateria e del whisky (quello autarchico non quello buono che viene dall’Europa).
Lascio agli economisti veri commentare queste riflessioni di un vecchio prete già in pensione e prossimo ad un appuntamento più importante di quello con Trump e persino, che Dio lo benedica, con papa Francesco.
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