Trump e Netanyahu hanno posizioni diverse su tanti dossier, ma non sul futuro di Gaza e della Cisgiordania: il primo però vuole chiudere la guerra
Il futuro di Gaza lo vedono alla stessa maniera, pensando di deportare la popolazione palestinese, ma sul resto Trump e Netanyahu hanno qualche idea diversa. L’atteggiamento del presidente americano, in queste ultime ore caratterizzate da dichiarazioni sulla fine della guerra e, per esempio, dalla revoca delle sanzioni alla Siria, è funzionale al suo viaggio nei Paesi del Golfo, dove, per concludere i suoi affari, ha bisogno di far dimenticare cosa sta succedendo nella Striscia.
USA e Israele, però, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI da Gerusalemme e poi inviato del TG1 Esteri, troveranno il modo di accordarsi, probabilmente lasciando mano libera a Netanyahu su Gaza e Cisgiordania e chiedendo in cambio un diverso atteggiamento israeliano riguardo agli altri dossier aperti in Medio Oriente. Gli obiettivi finali sulla Striscia, d’altra parte, sono gli stessi: Israele vuole raggiungerli combattendo ancora, gli Stati Uniti imponendo ad Hamas una pace sul modello di quella in Ucraina.
Trump e Netanyahu, in questi ultimi tempi, sembrano percorrere strade diverse. C’è una spaccatura tra di loro che si amplia di giorno in giorno?
Queste apparenti divergenze di vedute si legano a un luogo e a un tempo. Il tempo è quello del viaggio di Trump in Medio Oriente e il luogo, ovviamente, sono le capitali arabe dove Trump è andato. Tutto è cominciato prima della partenza di Trump: la frase più frequente, nei giorni immediatamente precedenti la sua partenza da Washington, riguardava la popolazione di Gaza, per la quale, secondo lui, ci deve essere un futuro migliore rispetto alla situazione attuale.
L’ha ripetuto anche a Riyad, auspicando la fine della guerra. Nella sostanza, invece, c’è stato un via libera politico di Trump che ha prodotto la liberazione, da parte di Hamas, di un soldato israelo-americano, vicenda che ha fatto ben intendere a Netanyahu che Hamas è capace ancora di controllare una parte del territorio della Striscia e ha persone in grado di svolgere anche un’attività politica, oltre che militare.
Come ha risposto Netanyahu a queste posizioni americane?
All’indomani della liberazione dell’ostaggio, ha cercato di colpire Muhammad Sinwar, fratello di Yahya, leader di Hamas ucciso nell’ottobre scorso. Un’operazione da ricordare per due motivi: la spiegazione surreale dei militari israeliani, secondo i quali non c’è stato il tempo di avvisare Trump, che era già in Medio Oriente, e il compiacimento, nonostante l’altissimo numero di morti civili negli attacchi all’ospedale Nasser di Khan Younis e all’European Hospital, per un intervento condotto con “molta aggressività”, utilizzando bombe particolarmente devastanti.
Azioni che gli israeliani hanno messo in atto per dire cosa?
Che vogliono essere loro a determinare il proseguimento o la fine del conflitto e delle trattative di pace e, cosa ancora più terrificante, a decidere se gli aiuti umanitari possono essere dati alla popolazione civile di Gaza o meno.
Qual è, nella sostanza, il vero motivo di attrito fra Trump e Netanyahu? Il primo vorrebbe la fine della guerra, il secondo no?
Sì. Agli affari con i Paesi del Golfo, tanto sbandierati dalla corte di Trump e dai media internazionali, serviva un biglietto da visita politico. Trump aveva bisogno di migliorare la sua immagine rispetto a quello che è successo a Gaza, così come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti avevano bisogno di giustificarsi agli occhi dell’opinione pubblica dei propri Paesi facendo presente che i colloqui con gli USA avevano anche una finalità politica che tendeva alla fine del conflitto.
E Netanyahu?
Viceversa, Netanyahu manifestava la volontà di proseguire nella guerra, nel tentativo di riportare una vittoria militare che passa, da una parte, attraverso l’uccisione dei leader di Hamas e, dall’altra, attraverso l’affamamento della popolazione della Striscia, ormai al terzo mese senza aiuti umanitari. Un piano da perseguire anche a prezzo di un isolamento internazionale, come si è visto nello scontro con Macron, accusato da Netanyahu di difendere Hamas.
Questo vuol dire che, per capire veramente come stanno i rapporti tra Trump e Netanyahu, dobbiamo aspettare che finisca la visita del presidente americano nel Golfo? È per questo che il piano di Israele di un nuovo attacco massiccio a Gaza è stato rimandato a dopo il viaggio a Riyad, Doha e Dubai, perché poi torneranno amici come prima?
Sono amici come prima. Sicuramente la visita di Trump in Medio Oriente, per ragioni di opportunità, ha prodotto un rinvio dell’attacco sul nord di Gaza. Dall’altro lato, però, non si può dimenticare che, ogni giorno che passa, il blocco degli aiuti e dell’acqua porta la popolazione palestinese, soprattutto i più deboli, al limite della sopportazione. Se si accetta questa scelta, evidentemente i rapporti tra gli Stati Uniti e Israele proseguono.
Che cosa hanno in mente allora Trump e Netanyahu per il futuro di Gaza?
Quello che un famoso giornalista di opposizione israeliano, Meron Rapoport, aveva detto un paio di mesi fa: se si leggono le indicazioni dei ministri israeliani, si intravede il loro piano politico-militare, spingere la popolazione di Gaza verso dei luoghi di concentramento al confine con l’Egitto, dove riceveranno cibo centellinato, vale a dire pacchi viveri una volta alla settimana.
Allora, quando nei giorni scorsi Netanyahu ha dichiarato che andava d’accordissimo con Trump, diceva la verità?
Sì, vanno d’accordo sugli obiettivi di fondo relativi a Gaza, non sulla tattica per i restanti dossier aperti: non c’è intesa sul fatto che Israele non tiene conto dei rapporti con i Paesi arabi, sulle sue pressioni per un conflitto con l’Iran a tutto campo, ma anche sulle vicende libanese e siriana. In Libano, la struttura del nuovo governo è tutta americana, con ministri che hanno anche il doppio passaporto; gli USA non possono affossarlo. I bombardamenti israeliani in Siria creano un problema politico, che Trump ha cercato di superare in queste ore togliendo le sanzioni contro il governo siriano: un messaggio che mette in guardia Netanyahu dal destabilizzare un regime sostenuto da Turchia e Stati Uniti.
L’accordo tra i due riguarda anche la Cisgiordania?
L’obiettivo dell’annessione della Cisgiordania rimane identico: l’ambasciatore USA in Israele scelto da Trump, per esempio, è d’accordo su questo. Altra cosa sono i tempi: Israele, su questo, vuole accelerare. In Cisgiordania, inoltre, la componente cristiana è sicuramente più numerosa rispetto a quella di Gaza, e questo pone un problema con il nuovo Papa.
Come concilieranno le loro posizioni allora Trump e Netanyahu?
Il presidente americano lascerà fare su Gaza e chiederà al premier israeliano di cambiare atteggiamento sul resto.
Trump, però, sta cercando di gestire il dossier ostaggi autonomamente e vuole che la guerra nella Striscia finisca: verrà accontentato?
Gli americani hanno capito perfettamente che le trattative sugli ostaggi e la tregua, che si ripropongono mensilmente, non hanno il supporto di Netanyahu e vorrebbero giungere alla fine della guerra gestendo direttamente loro il negoziato, prevedendo ugualmente lo spostamento della popolazione da Gaza. Con la fine del conflitto, vogliono fermare l’ondata internazionale di protesta contro Israele e Stati Uniti per quello che succede a Gaza. La differenza con Netanyahu è che il premier israeliano ha gli stessi obiettivi, ma li vuole raggiungere combattendo. L’idea di Trump sulle trattative di pace, d’altronde, è la stessa che sta applicando in Ucraina: la parte più debole deve prendere atto che la controparte è più forte. Un approccio che ripropone anche nei confronti di Hamas.
(Paolo Rossetti)
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