Trump in Arabia Saudita, Emirati e Qatar per riaffermare l’influenza USA contro la Cina. Con gli arabi possibili alleanze per metter fine alla guerra a Gaza
La visita riguarda Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, per parlare di armi da vendere, intelligenza artificiale e tecnologia per l’energia nucleare. Lì Donald Trump ha scelto di andare per il suo primo viaggio da presidente degli USA. Per concludere affari, osserva Rony Hamaui, docente di scienze bancarie all’Università Cattolica di Milano ed esperto di economia e finanza islamica, ma anche per riaffermare l’influenza americana in un’area dove i cinesi sono molto attivi. Trump vuole i soldi degli arabi, che invece hanno bisogno degli statunitensi per iniziare a pensare a un futuro senza il petrolio. Oltre che di business, le parti parleranno anche di Gaza: la guerra ora dà fastidio anche agli americani e l’asse USA-Paesi del Golfo potrebbe contribuire a porre termine al conflitto.
Trump è sbarcato in Arabia Saudita per un viaggio da mille miliardi di dollari in affari nei Paesi del Golfo. Qual è il senso del tour mediorientale del presidente americano?
È un viaggio d’affari, almeno nella testa di Trump. Vuole dimostrare al suo elettorato che è in grado di portare a casa investimenti da questi Paesi. Con lui c’è Musk, ma anche Altman (amministratore delegato di Open AI, nda). Dopodiché è pure un viaggio politico, in cui contano anche le amicizie personali: a Trump il Qatar ha regalato un aereo da 400 milioni di dollari, e questo la dice lunga su quanto in questo caso le vicende private si sommino a quelle pubbliche e su quanto il presidente americano si curi dei conflitti di interesse. Un viaggio che però conta più per i messaggi che manda che per i contratti firmati.
È un messaggio anche per Israele? Secondo alcuni analisti Netanyahu non è contento del fatto che gli USA vendano armi agli arabi, ha paura di perdere il primato militare in Medio oriente. C’è questo rischio?
Molti analisti hanno sottolineato il fatto che Trump non visiterà Israele, rimarcando un certo allontanamento da Netanyahu. Non so quanto sia forte questo disaccordo, anche se i segnali ci sono. L’amministrazione USA, comunque, vuole che i Paesi della zona riconoscano Israele e punta a ricreare una forte influenza statunitense in un’area cruciale: in questo contesto, la guerra a Gaza non lo aiuta dal punto di vista strategico.
Quindi gli USA vogliono riaffermare la loro influenza, nonostante Netanyahu?
Nonostante Netanyahu e nonostante il fatto che i sauditi in questi anni si siano un po’ allontanati da Washington: Riyad fa parte dei BRICS e ha allacciato rapporti con la Cina. Anche per questo Trump sta cercando di riprendere quota in questa regione: non so se ci riuscirà, però l’intento è questo. I mille miliardi di affari sono l’annuncio a effetto: gli investimenti ci saranno di sicuro, ma non so se saranno così consistenti. Poi ci sono gli interessi a livello personale. Trump gestisce sempre i suoi affari privati insieme a quelli pubblici; penso a finanziamenti immobiliari da parte degli arabi per campi da golf e altre attività che interessano molto al presidente USA.
Perché, invece, i sauditi e gli altri Paesi hanno bisogno degli Stati Uniti?
I sauditi in particolare stanno tentando disperatamente di crearsi un futuro post-petrolifero e ci stanno riuscendo in parte: la strada da fare è ancora lunga. In questa direzione, un rapporto più forte con gli Stati Uniti può aiutare tanto. In quest’area verrà aperta una Disneyland e ci sono tante piccole o grandi iniziative per rinsaldare i rapporti con gli USA. Peraltro, credo che sauditi, qatarini ed emiratini saranno abbastanza furbi da dire sì a Trump, ma quando da loro si presenterà Xi Jinping diranno anche a lui che tengono ai rapporti con la Cina e che Pechino è molto importante per loro.
Cosa significa che nel Golfo si sta immaginando un futuro post-petrolifero? Il piano di sviluppo dell’energia nucleare con i sauditi fa parte di questo progetto?
Sì, c’è il nucleare, ma ci sono tante altre cose. I sauditi sanno che devono uscire da un’economia che oggi dipende in maniera ancora prevalente dagli idrocarburi. Una fase che durerà ancora 10, 20, 30 anni, ma non durerà per sempre. Hanno fatto molti passi avanti: hanno compagnie aeree molto profittevoli, vantano progressi nei servizi e nel turismo, investono in tecnologia, nelle università, nei musei; insomma, stanno tentando in tutti i modi di diversificare la loro economia. Una strada che ha portato anche a una certa liberalizzazione dei costumi. Anche la collaborazione con gli USA che cercano nell’ambito dell’IA va in questo senso: è uno dei settori sui quali hanno deciso di investire, mettendo molti soldi.
Una delle richieste degli americani sarebbe di aumentare la produzione di petrolio per contribuire ad abbassare i prezzi. Trump vuole ottenere anche questo?
Su questo comincio ad avere qualche dubbio. Il prezzo del petrolio è già sceso tantissimo e, quando è troppo basso, da una parte aiuta il cittadino americano, che spende meno, ma dall’altra penalizza i produttori USA, che hanno costi di produzione molto più alti dei Paesi mediorientali: la tecnica del fracking, che loro usano, è molto più costosa. Il petrolio sotto i 60 dollari al barile comincia a diventare un problema anche per gli Stati Uniti. Se poi domani dovesse esserci una pace in Ucraina, c’è il rischio che il prezzo del petrolio o comunque dell’energia scenda a livelli molto bassi. E lo stesso varrebbe se si arrivasse a un accordo con l’Iran per il nucleare.
Paesi come gli Emirati Arabi Uniti hanno rapporti più stretti di altri con la Cina. Quanto dà fastidio agli americani la presenza dei cinesi nella regione?
La Cina rimane il grande concorrente degli Stati Uniti, quindi tutti coloro che hanno forti rapporti commerciali con Pechino impensieriscono gli americani. Lo stiamo vedendo adesso con l’America Latina, finora considerata una propaggine degli Stati Uniti, dove il Dragone ha annunciato prestiti per decine di miliardi. La presenza dei cinesi ormai si fa sentire un po’ ovunque. Tutto questo, ovviamente, infastidisce gli americani. Per i cinesi è una strategia importante per rendere meno cruciali gli USA per la loro economia.
Trump in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti non potrà fare a meno di affrontare il tema del futuro di Gaza e della questione palestinese. A Trump verrà chiesta un’iniziativa in questo campo?
È un tema che verrà affrontato certamente. Qualcosa si sta muovendo, ci sono già molti segnali in questo senso: il rilascio dell’ostaggio americano da parte di Hamas è uno di questi. I sauditi non riescono a riconoscere Israele, non possono firmare un patto di Abramo, perché con una guerra in corso avrebbero contro l’opinione pubblica locale. Questo conflitto comincia a dare molto fastidio anche a Trump.
Gli americani ora dicono che c’è la possibilità di trovare un accordo per tregua e ostaggi, mentre Netanyahu rassicura il governo dicendo che la guerra non finirà. Trump cosa farà?
Trump con Israele ha molte armi da giocare: la difesa israeliana dipende in gran parte dagli Stati Uniti. Credo voglia tenere a bada Netanyahu, come sta facendo sul fronte Iran: non dimentichiamoci che il governo israeliano avrebbe voluto azzerare il potenziale nucleare di Teheran. Bisogna anche riconoscere che Paesi come l’Arabia Saudita si sono allontanati da Hamas, un po’ perché non riescono a finanziarlo oggi, ma anche perché non hanno interesse a farlo. È una situazione in evoluzione.
Ma senza una presa di posizione americana sulla questione palestinese, gli affari con il Golfo salteranno?
Ci sono degli interessi convergenti a risolvere in qualche modo questa guerra che si trascina da tempo. Israele non ne ha mai affrontata una così lunga: perfino quella di indipendenza è stata più corta di questa. Ci sono molti segnali della stanchezza della gente: i riservisti è già la quarta volta che sono costretti ad abbandonare famiglia e lavoro. Certamente un asse Paesi del Golfo-USA aiuterebbe a muoversi nella direzione della fine del conflitto.
(Paolo Rossetti)
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