Da quando si è insediato alla Casa Bianca, Donald Trump ha riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo con le sue continue dichiarazioni e iniziative. Non si intende qui entrare nel merito delle dichiarazioni del Presidente americano contro le politiche di inclusione per due semplici ragioni. La prima è che si inseriscono nel solco di una società fortemente polarizzata che conosce, dalle viscere, soltanto chi ne abita gli anfratti. La maggioranza delle persone inoltre conosce soltanto gli accadimenti più importanti, insufficienti a radicare un giudizio compiuto.
L’estremismo woke, il movimento Black Lives Matter e le lotte sul versante dell’immigrazione sono noti a tutti. Allo stesso modo sappiamo anche che nel 1776, l’anno della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, gli uomini titolari dei diritti erano esclusivamente i maschi di “razza caucasica”, i “men“, e che solo nel tempo i diritti sono stati tarati sugli “humans“. Ai neri il voto fu garantito soltanto nel 1869 con il 25esimo emendamento.
La politica di “Affirmative action“, avviata nel 1965 con il Presidente Johnson, perseguiva lo scopo di realizzare l’integrazione e favorire l’ascensore sociale con iniziative concrete: fu vietata, ad esempio, la discriminazione negli affitti in base all’etnia degli inquilini, fu ripensato il “busing” (il trasporto pubblico) perché studenti di ogni provenienza viaggiassero insieme, le università pubbliche ammisero i candidati alla luce delle loro potenzialità anziché dello status quo. Inoltre, nel 1868, il 14esimo emendamento riconobbe la condizione di cittadini americani a tutte le persone nate o neutralizzate negli Stati Uniti.
La seconda ragione è che le dichiarazioni di Trump intersecano anzitutto la faida politica con la sinistra di Biden. Lo stesso Presidente democratico, al suo insediamento quattro anni fa, firmò 17 ordini esecutivi contro le decisioni prese dalla precedente Amministrazione trumpiana. Tra di esse: la revoca dell’ordine esecutivo che limitava la possibilità di agenzie federali, aziende e istituzioni di promuovere corsi sulla diversità, il rafforzamento del programma in favore degli immigrati irregolari giunti negli Usa da bambini o la costituzione di un’agenzia contro il razzismo. Precedentemente George W. Bush si è fortemente concentrato sulla lotta alle discriminazioni religiose, mentre Barack Obama si impegnò contro le discriminazioni razziali ed etniche. Questa dinamica politica negli Stati Uniti è conosciuta come “rollback“.
Quella che, invece, vorremmo richiamare è la tradizione culturale di cui è figlia la nostra vecchia Europa. Una tradizione che nel candidare la persona a sua colonna portante, l’ha immaginata fortemente inclusiva. Una visione nata e sviluppatasi al riparo dal vento della polarizzazione che oggi soffia sugli Stati Uniti.
Basti pensare alla nostra, bellissima, Carta Costituzionale, che ha spiccato il volo sulle ali del personalismo di filosofi come Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier. Il suo articolo 3, nel proclamare l’uguaglianza tra persone, ne garantisce le differenze. E genera un sillogismo inossidabile: se la persona è centrale, lo è anche ciascuna diversità che la abita e così la comunità che di esse è sintesi.
In questo modo, la tutela di sesso, razza, etnia, lingua, religione, appartenenza politica, o di qualsiasi altra condizione psico-fisica, come la disabilità, diventa la condizione principale per l’inclusione sociale. Per un modello di società in cui, per usare le parole di papa Francesco, ciascuna persona fiorisce nell’altra. Corollario di questa impostazione sono gli espliciti divieti costituzionali di discriminazione, ma anche il dovere della Repubblica di rimuovere qualsiasi ostacolo allo sviluppo della personalità umana.
L’articolo 38 della nostra Carta garantisce il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale a ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, così come quello dei lavoratori ai mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria. Si tratta delle gambe su cui si reggono quel welfare e quel sistema di previdenza che gli Stati Uniti non conoscono né immaginano.
E infine, il diritto delle lavoratrici, scolpito nell’articolo 37, alle stesse retribuzioni e possibilità riconosciute, a parità di lavoro, ai lavoratori, ma anche il diritto delle famiglie ad una seria conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
In definitiva, gli “strali” di Trump non devono né scandalizzarci, né scuotere le certezze che ci lascia in eredità la straordinaria cultura del Vecchio continente. Due società, quella statunitense e quella europea, così radicalmente diverse da non poter nemmeno essere paragonate. Ciò a cui siamo chiamati oggi, nonostante i venti di estremismo che soffiano e i dubbi che si insinuano nelle masse, è restare un’alternativa virtuosa.
Lo ha richiamato con forza anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il suo recente discorso a Marsiglia: l’Europa non può abbassarsi alla prospettiva di un “vassallaggio felice” di altre potenze, ma deve rivendicare la storia che l’ha costruita e rinnovarsi. “Ex Oriente Lux”, recitavano gli antichi. E se oggi dicessimo: “Ex Europa Lux”?
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