Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – protagonista di un conflitto armato durato oltre quattro decenni contro lo Stato turco – ha annunciato ufficialmente il proprio scioglimento e la cessazione definitiva della lotta armata durante il 12° congresso tenutosi la scorsa settimana e la decisione – diffusa dall’agenzia filo-curda ANF e poi confermata in una dichiarazione ufficiale – definisce un cambiamento rivoluzionario per una regione segnata da migliaia di vittime e tensioni irrisolte che da anni chiedevano un’alternativa alla violenza.
Il leader storico Abdullah Öcalan – detenuto da 26 anni nel carcere di Imrali – aveva già esortato a febbraio il movimento a rinunciare alla battaglia, definendola “un ostacolo alla pace” con un appello accolto dal comitato direttivo che aveva proclamato un cessate il fuoco immediato lo scorso marzo: questa mossa ha aperto uno spazio per mediazioni condotte dal partito filo-curdo DEM, sostenute in modo inatteso anche da Devlet Bahçeli, leader dell’MHP e alleato del presidente Erdogan.
La scelta di sciogliere la struttura organizzativa del PKK (classificato come gruppo terroristico da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea) arriva dopo mesi di trattative informali e segnali di distensione, in un contesto tutt’altro che semplice macchiato da da anni di repressioni violente e arresti di massa ai danni di attivisti curdi e ora il presidente Recep Tayyip Erdogan – che aveva definito l’iniziativa di Öcalan un’ “opportunità storica” – si trova di fronte alla sfida politica forse più delicata della sua carriera cioè quella di integrare le istanze della minoranza curda – che rappresenta circa il 20% della popolazione turca – senza dar vita a nuove spaccature né a promesse disattese.
Tra le richieste in campo compaiono il riconoscimento costituzionale dell’identità linguistica e culturale curda, insieme a una forma di autonomia amministrativa per le province del sud-est: una questione che non può più essere rimandata, dopo decenni di mancato ascolto.
PKK chiude dopo 40 anni di guerra: la lunga storia di un movimento che cambia volto
Fondato nel 1978 da Abdullah Öcalan con l’obiettivo iniziale di ottenere l’indipendenza del Kurdistan turco, il PKK si trasformò a partire dagli anni Ottanta in una vera e propria forza paramilitare, con oltre 10.000 miliziani attivi e protagonisti di scontri armati, attentati e azioni di guerriglia che hanno insanguinato l’Anatolia orientale e – nel corso del tempo – le rivendicazioni originarie si sono evolute verso richieste più pragmatiche come l’autonomia locale e il riconoscimento dei diritti linguistici e culturali, abbandonando progressivamente la linea secessionista che lo aveva contraddistinto agli esordi.
Bisogna ricordare come già nel 1995 il gruppo avesse rinunciato esplicitamente alla lotta per l’indipendenza, puntando su una strategia negoziale che ha avuto alti e bassi fino ai tentativi di dialogo tra il 2009 e il 2015, poi falliti: durante quei brevi anni di apertura politica, il governo Erdogan aveva avviato riforme simboliche, come l’abolizione della pena di morte per Öcalan e qualche misura a favore della cultura curda senza però mai toccare i punti più sensibili.
Il ritorno a una linea dura, dopo il fallito colpo di stato del 2016, ha segnato una drastica inversione di tendenza: operazioni militari su vasta scala nel sud-est, arresti indiscriminati di sindaci curdi eletti democraticamente e una retorica sempre più repressiva hanno reso negli anni successivi quasi impensabile un esito come quello annunciato oggi ma complice il peso ancora forte di Öcalan nella base curda e le pressioni internazionali sulla stabilità interna della Turchia, la situazione è mutata rapidamente.
Emerge quindi una convergenza inedita tra il desiderio di pace della leadership curda, il lavoro di mediazione politica del DEM e gli interessi geopolitici di Erdogan, intenzionato a pacificare le regioni interne in vista di riforme economiche e di un eventuale rilancio della candidatura europea: resta ora da capire se il governo saprà trasformare questa tregua storica in una nuova stagione politica.