Potremmo chiamarlo, e qualcuno qualcuno già lo ha fatto, cinema performativo, ossia quei film in cui ciò che fanno gli attori, i tecnici del film, il regista è considerabile per il valore di performance spettacolare, come il circo per intenderci. Sono performativi certi musical per esempio, ma soprattutto i film d’azione in cui il corpo degli attori – spesso artisti marziali – è al centro di tutto. Tyler Rake è uno di questi film.
Diretto da Sam Hargrave, coordinatore degli stuntman nei film Marvel all’esordio nel lungometraggio, il film racconta di una missione suicida per cui ingaggiano il mercenario del titolo: salvare il figlio rapito di un boss della droga del sudest asiatico. Alla sceneggiatura Joe Russo, uno dei due fratelli autori degli Avengers che qui figurano anche come produttori, ma più che la scrittura in Tyler Rake contano appunto le performance e il film è costruito attorno alle sequenze d’azione, tra una scazzottata e un inseguimento.
I modelli del film sono fin troppo chiari da The Raid – il film di Gareth Evans che fa da spartiacque nella messinscena dei combattimenti marziali – a due dei più ambizioni progetti Netflix (che distribuisce il film) come Triple Frontier di Chandor e 6 Underground di Bay, ma a Hargrave e ai Russo non interessa molto, perché ciò che conta sono i “numeri”, i pezzi d’azione in cui il protagonista Chris Hemsworth, gli altri attori e il direttore della fotografia Newton Thomas Sigel sono chiamati a spingere lo spettacolo sempre un passo oltre.
È il limite alla base di questo tipo di cinema, che oltre alla bellezza delle singole sequenze deve dare conto quasi sempre di ciò che c’è stato prima, per arrivare a gradi di stupore mai visti, per lasciare ogni volta il pubblico a bocca aperta alla ricerca del record: in questo caso tutto il film si concentra in un piano sequenza di 11 minuti, in effetti stupefacente, che mescola sparatorie, fughe, automobili e combattimenti corpo a corpo, in cui come i corpi degli attori/performer anche la macchina da presa (e l’invisibile montaggio digitale di Ruthie Aslan e Peter B. Ellis) salta, vola, colpisce e incassa.
Attorno a questo pilastro Hargrave ha costruito il resto dell’ottovolante in cui le maschere e i caratteri sostituiscono i personaggi, in cui l’azione sostituisce il racconto. Il problema che porta Tyler Rake uno o due gradini al di sotto di film simili è che il regista non ha la forza creativa dei migliori del genere nella creazione delle sequenze, per cui dopo i primi 45′ il film si adagia un po’ anche da quel punto di vista e quindi vengono ancora più a galla tutte le lacune nel rendere appassionante la vicenda.
Tyler Rake è un minestrone surgelato, sicuramente ben condito e con un paio di ingredienti di pregio che però dopo qualche boccone fai un po’ di fatica a finire. Quando invece, nell’Olimpo dei film performativi, alla fine dello spettacolo non vedi l’ora di ricominciare, di tornare in sella alla vettura dell’ottovolante.