Dialogo con tutti. Slegando l’azione della Chiesa da quella dell’Occidente, senza rompere i legami con quest’ultimo. Un approccio che, per Francesco, ha significato tenere i rapporti con i russi nonostante la guerra in Ucraina, non tacere sulle violenze a Gaza, ma anche dialogare sia con gli USA che con la Cina. Una strategia, spiega Francesco Peloso, vaticanista di Domani e Adista, che ha comportato qualche critica al Pontefice, ma che ha indicato la strada che conduce alle trattative e poi ad accordi di pace tra chi è in conflitto. Una visione profetica che cerca di ragionare sul lungo periodo, l’unica, alla fine, che può portare a risultati positivi nel mondo del tutti contro tutti.
Come è cambiata, con papa Francesco, la collocazione “geopolitica” della Chiesa, come ha concepito la sua presenza nel mondo?
Il suo pontificato, sicuramente, ha cercato di disincagliare la Chiesa dall’alleanza storica con l’Occidente e con l’Europa. Più che di un’alleanza, si trattava di una dipendenza quasi culturale, una sorta di legame ombelicale. Francesco si è mosso in questa direzione con un’idea abbastanza precisa, non casuale.
Qual è stata la sua strategia?
Anzitutto bisogna ricordare che era un papa sudamericano, il primo non europeo. Ha cercato di portare la Chiesa al dialogo con tutti, anche se per farlo ha dovuto allentare, appunto, il legame con l’Occidente. In Cina, in Estremo Oriente, per esempio, la Chiesa è riuscita finalmente ad aprire un piccolo varco proprio perché il Papa ha fatto in modo che non fosse identificabile come uno strumento di conquista culturale o postcoloniale. Un elemento molto importante.
Cosa comporta questo nuovo approccio rispetto al passato?
La sua impostazione ha aperto alla Chiesa nuovi scenari, nuove possibilità di evangelizzazione. In generale, questa è stata la sua caratteristica: disincagliare la Chiesa dal legame storico con l’Europa, che non è considerato del tutto negativo, ma che era visto sempre con un po’ di sospetto dalle nazioni del Sud del mondo. Soprattutto in continenti in cui la religione cattolica non è così radicata.
Questo atteggiamento come ha cambiato il modo di porsi di fronte ai due scenari più caldi a livello mondiale, l’Ucraina e il Medio Oriente?
In Ucraina, in particolare, Francesco ha cercato di mantenere aperta una finestra di dialogo con la Russia, anche se si è trattato di una scelta che gli è stata molto rimproverata, perché si è scontrato con la realtà di una guerra in cui l’Europa era schierata contro Mosca. Questo ha fatto sì che le sue posizioni fossero equivocate in un primo tempo, forse perché inizialmente ha sbagliato qualche tono, qualche intervento. Ma non è questo che conta.
Qual è l’insegnamento che ci ha lasciato con i suoi tentativi di dialogo fra russi e ucraini?
Ciò che importa è che ha cercato di mediare, accreditando la Chiesa come elemento di pacificazione, come forza negoziale. Ci ha provato in tutti i modi, anche se non ci è riuscito: le forze in campo sono tremende, grandi potenze, e tutto sommato la diplomazia vaticana è disarmata. Credo, però, che il suo tentativo avrà successo in qualche modo: alla fine bisognerà trovare un accordo per ricostruire un tessuto di pace, di convivenza a livello europeo. Questo è stato il dato importante della guerra con l’Ucraina: ha voluto mantenere un rapporto con la Russia anche quando sembrava impossibile, soprattutto nella prima fase del conflitto.
Come ha affrontato, invece, la guerra a Gaza?
Quello che sta succedendo in Medio Oriente è scandaloso, eppure il Papa ha avuto sempre parole molto chiare: è stato rimproverato di essere contro Israele, ma ha denunciato le violenze e le sopraffazioni a Gaza, violazioni di diritti umani clamorose, nonostante, naturalmente, il 7 Ottobre rappresenti una ferita che per Israele non è facilmente rimarginabile. Anche in questo caso ha cercato di spingere verso una soluzione politica, negoziale. Ha avuto anche il coraggio di usare la parola genocidio. Persino nell’ultimo Angelus ha parlato dell’ignobile situazione umanitaria della Striscia. La sua è stata una delle poche voci che si è levata in questi mesi rispetto a quello che sta succedendo in Terrasanta.
Quanto gli è costata questa denuncia?
In alcune occasioni il Papa ha mostrato scarsa prudenza diplomatica. D’altra parte, anche in Ucraina non è stato sempre prudente: se si vuole un linguaggio di pace in momenti come questo, tuttavia, qualcuno bisogna scontentarlo. Mi sembra, però, che la sua sia una parola profetica, che magari non sembra portare a risultati immediati, ma indica una strada, l’unica perseguibile per uscire da una situazione di conflitto.
L’ultimo suo incontro diplomatico è stato con il vicepresidente americano J.D. Vance. La politica del dialogo impone di non chiudere comunque la porta anche all’Occidente?
Il Papa si è voluto separare dall’Occidente, ma non nel senso di una separazione netta: ha solo slegato i destini della Chiesa universale da quelli della politica europea e americana. I papi hanno sempre voluto dialogare con tutti e questo Pontefice ha sostenuto la necessità di parlare con tutti, anche con i nemici. Dopo l’elezione di Trump ci sono stati momenti di contrapposizione molto forti, sia dell’episcopato americano, sia della Santa Sede, con l’amministrazione Trump. L’incontro con Vance è significativo da questo punto di vista: è stato un tentativo di ricucire, di aprire una possibilità di dialogo. Anche l’incontro parallelo che c’è stato con Parolin ha puntato su questo, anche se su migranti e rispetto della dignità umana le posizioni sono diverse.
In una situazione di tutti contro tutti, come quella attuale, il metodo Bergoglio può diventare per gli Stati un esempio da seguire per dirimere le controversie?
Francesco ha cercato in tutti i modi di stabilire un criterio, lo ha fatto con la Fratelli tutti, nei rapporti con il mondo islamico, con il quale ci sono ancora differenze notevoli. Il dialogo vuol dire la comprensione dell’altro, anche delle differenze dell’altro, naturalmente senza perdere le proprie caratteristiche, ma cercando punti di contatto, su cui si basa la possibilità di trattativa, per giungere a un accordo. Per questo ha chiesto alla diplomazia vaticana di essere aperta a qualsiasi possibilità di pace, anche la più piccola.
Dagli USA alla Cina: il Papa è stato criticato per il suo accordo con Pechino, giudicato troppo accondiscendente nei confronti delle autorità cinesi. Ha concesso troppo, cedendo anche su aspetti importanti?
Se, in prospettiva, la Chiesa pensa che la Cina sia un grande territorio di evangelizzazione, lavora anche in questa direzione: si spiegano così la lettera ai cinesi di Benedetto XVI e il tentativo di Francesco di accordarsi sulla nomina dei vescovi. Bisogna tenere conto che i tempi della Chiesa non sono quelli della storia quotidiana, perché implicano una visione profetica che non ha a che vedere con la diplomazia spicciola, ma guarda le cose più in profondità. In questo caso ha come obiettivo aiutare la Chiesa a entrare in Estremo Oriente. E in questa prospettiva ha dovuto rinunciare a qualcosa.
(Paolo Rossetti)
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