Putin è pronto a trattare per fare la pace, “ma non a qualsiasi prezzo”. Secondo fonti russe riportate ieri dalla Reuters, per sedersi al tavolo delle trattative Putin vuole un impegno scritto da parte dei principali Paesi che sostengono l’Ucraina a non allargare la Nato verso Est.
Il tema non è ovviamente nuovo, nuovo è il metodo: per la prima volta il Cremlino fa trapelare oltre il perimetro e la riservatezza delle trattative la richiesta di un impegno scritto su un punto strategico decisivo – le “cause profonde del conflitto” – sul quale finora non ha avuto risposte.
Lo stop all’allargamento della Nato si accompagna ad altre richieste: la neutralità dell’Ucraina, oltre all’esclusione che Georgia, Moldavia e altre repubbliche ex sovietiche entrino nell’alleanza, la revoca di alcune sanzioni occidentali, la risoluzione della controversia sui beni russi congelati. Intanto sale la temperatura dello scontro tra Mosca e Berlino.
Il commento di Maurizio Boni, generale di Corpo d’armata e opinionista di Analisi Difesa.
Perché questa mossa del Cremlino?
La richiesta ha un valore non solo politico ma anche simbolico: Putin vuole che sia messa per iscritto la promessa, poi disattesa, fatta a Gorbachev di non allargare “di un pollice” (James Baker, 1990, nda) la Nato verso Est. Poiché l’allargamento è stato una causa scatenante del conflitto, Mosca ora pretende che non vi siano più ambiguità.
Lavrov ha dichiarato che la Russia è pronta il 2 giugno a sedersi a Istanbul al tavolo dei negoziati. Dunque si continua.
Anche l’insistenza su Istanbul ha un valore simbolico: è la stessa sede nella quale nel marzo 2022 gli occidentali fecero saltare il negoziato. La Turchia è Paese Nato; in questo modo, Mosca ribadisce che la pace non potrà essere solo con l’Ucraina, ma soltanto con l’Alleanza atlantica nella sua interezza.
Quale sarà la risposta americana?
Gli Stati Uniti dovranno visionare il memorandum russo concordato nella telefonata Trump-Putin e poi prendere una decisione. Non sappiamo quale sarà, ma un dato è certo: finora l’amministrazione americana non si è rivelata capace di gestire la complessità della trattativa.
Secondo il Wall Street Journal, Trump sarebbe sottoposto a due tipi di pressione. Uno di impronta neoconservative, ostile alla Russia, e l’altro favorevole a chiudere quanto prima il dossier ucraino. È una analisi credibile?
Nella sostanza, sì. Aggiungerei un altro fatto. Occorre capire se Trump viene informato a dovere sugli sviluppi del conflitto e dei negoziati, o se invece – e potrebbe essere conseguenza di un’informazione inadeguata – non si stia preparando proprio a una possibile ipotesi di escalation. La parte più oltranzista che lei ha citato, quella neocon, si è spinta ad ipotizzare sanzioni del 500 per cento nei confronti dei clienti di Mosca. È un’opzione che precede i negoziati e risale all’amministrazione Biden, nondimeno è ancora sul tavolo. Questo, oltre a darci un’idea dei gruppi di pressione esistenti nella politica americana, getta un’ombra di precarietà su tutti i possibili sviluppi.
Che cosa intende dire?
Significa che gli Usa, ad oggi, non hanno in serbo una qualche soluzione tenuta nel cassetto, ma vivono alla giornata. Hanno affrontato la trattativa con Mosca con superficialità e arroganza, sottovalutandone completamente il grado di complessità. È evidente che non hanno gli strumenti per gestire il dossier.
Quali sono le conseguenze di questa debolezza americana?
La prima conseguenza è che molto, troppo, dipenderà dalla personalità di Trump, dalla sua percezione di questa vicenda, da ciò che ha personalmente compreso del conflitto e dagli obiettivi che, su quella base, si propone.
C’è da dire che l’idea neocon di indebolire la Russia, qualunque cosa si pensi del regime di Mosca, è il vecchio concetto strategico americano che abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni.
Esatto. E questo ha due conseguenze. La prima è che un’America pro-sanzioni o che fornisce armamenti all’Ucraina, o all’Unione Europea perché aiuti l’Ucraina, non può essere considerata un negoziatore affidabile.
E la seconda?
Trump non potrebbe più affermare che quella in Ucraina era la guerra di Biden, perché diventerebbe anche la sua. Sarebbe un danno di immagine molto rilevante.
Qual è allora il problema dei problemi?
Il fatto che finora gli Stati Uniti hanno dimostrato di non saper dare risposte alle questioni dirimenti avanzate dalla Russia, ossia “le cause profonde” del conflitto su cui adesso Putin chiede garanzie scritte. Hanno cercato di sedurre Putin coinvolgendolo negli interessi economici americani, ma sulle cose che contano, come il riconoscimento dei territori, è buio fitto: non si sa cosa pensi la Casa Bianca, in compenso sappiamo bene cosa pensa il Cremlino, che sugli oblast occupati non farà mai marcia indietro.
L’ipotesi di congelare il conflitto sulle posizioni attuali, con un cessate il fuoco o una tregua?
Darebbe la possibilità alla Nato, o anche solamente ai “volonterosi”, di entrare in Ucraina. Alimentando i presupposti di un inasprimento della guerra.
Sembra che gli Usa vogliano rafforzare i confini nord-orientali della Nato. È deterrenza oppure ostilità?
È un gioco rischioso dagli sviluppi indefiniti, infatti i russi hanno rafforzato la loro presenza al confine finlandese. Innanzitutto bisognerà capire se alla volontà seguiranno i fatti. Ma qui torniamo a Trump. Di quale Trump stiamo parlando? Di quello che voleva abbandonare l’Europa, dislocando altrove uomini e mezzi, o di quello che dà credito alla tesi baltica, e non solo baltica, di un’invasione russa prossima ventura? Una tesi insostenibile militarmente e politicamente, come ho detto più volte.
Quale tesi prevarrà?
Finora è sembrata prevalere quella dell’advisor che esce per ultimo dallo Studio Ovale.
Lei cosa pensa sul rafforzamento difensivo in quell’angolo di Europa?
La mia sensazione è che ci sia stato un fortissimo driver da parte dei Paesi baltici e scandinavi per indurre gli americani a sbilanciarsi nel senso di dover fronteggiare il pericolo russo. Però è tutto molto confuso.
Per il cancelliere Merz sono stati giorni imbarazzanti, cominciati con la liberatoria all’utilizzo delle armi a lungo raggio, impallinata dalle smentite, e terminati ieri con la promessa del supporto all’industria bellica di Kiev. A chi giova questa postura?
All’Ucraina. Ancora nel 2023 Andriy Yermak, capo dell’ufficio di Zelensky, aveva detto che l’unica strategia che poteva avere l’Ucraina per poter prevalere era quella di escalare il conflitto coinvolgendo la Nato. La posizione di Merz dimostra che questo disegno è rimasto immutato.
Non è fattibile o non è consigliabile?
Insistere mi pare pericoloso. Due osservazioni. La prima: i russi vogliono un’Ucraina non solo neutrale, ma anche sostanzialmente disarmata. Non vedo come realizzare fabbriche di armi in Ucraina possa in qualche modo conciliarsi con la clausola della neutralità. La seconda osservazione è che la strada del supporto offensivo si è già visto dove porta.
Vale a dire?
Lo aveva capito bene Scholz: colpire in profondità il territorio russo significa, per i Paesi che hanno contribuito alle missioni offensive, diventare obiettivi militari legittimi. Nel 2024 sono stati lanciati in territorio russo alcuni missili Storm Shadow britannici, ma senza colpire obiettivi importanti. La Russia ha risposto cambiando la sua dottrina nucleare e riservandosi il diritto di colpire chiunque secondo l’entità dell’offesa ricevuta, anche se attuata con armi convenzionali. Oggi in territorio russo si addentrano solo droni ucraini.
Perché non si riesce a trovare una soluzione a questa guerra?
Lo ha spiegato Trump nel marzo scorso, anche se poi ha fatto finta di non averlo detto: è la Russia ad avere “tutte le carte in mano”. Mosca potrà sedersi a Istanbul da una posizione di forza.
La sua previsione, almeno nel breve termine?
I russi continueranno a combattere e occupare il territorio ucraino, e si fermeranno se e dove vorranno farlo. Non vedo per il momento fattori significativi che al tavolo negoziale possano convincerli a desistere.
(Federico Ferraù)
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