Che Beppe Sala voglia “scendere in campo” non è più una notizia: sono mesi che il sindaco di Milano si scalda su tutti i campi possibili (come candidato federatore del centrosinistra piuttosto che da candidato governatore della Lombardia). Quello che appare non scontato è il format dell’ennesimo annuncio: la prima pagina del Foglio e l’ostentato gemellaggio con Emmanuel Macron, il giorno dopo il summit di Londra, nel tam-tam di un “girotondo per l’Europa” chiamato a Roma da Repubblica.
Sala è il primo a considerarsi un sindaco uscente con largo anticipo sul prossimo voto comunale, al momento fissato per l’autunno del 2026. Macron è di fatto un presidente già “uscito”: battuto alle elezioni europee e legislative francesi di metà 2024, non rieleggibile fra due anni all’Eliseo, oggi in coabitazione con un governo di centrodestra sostenuto da Marine Le Pen.
Entrambi – certamente nella singolare “foto di famiglia” incorniciata dal Foglio – sembrano guardare ora al terremoto globale indotto da Donald Trump come a un’insperata opportunità di rinculare dai rispettivi binari morti. Pare perfino di capire all’interno di un progetto comune: il rilancio di un “fronte repubblicano europeo” – di “resistenza alle destre” – peraltro fallito proprio in Francia, poi più clamorosamente negli Usa e infine tutt’altro che riuscito nove giorni fa in Germania.
La cautela diffidente della premier Giorgia Meloni ieri al summit di Lancaster House, a valle del bilaterale di Londra sull’Ucraina, pare comunque legata anche a questo scenario: anzitutto al ruolo di co-leader europeo assunto da Macron sul versante continentale (Ue) a fianco del premier britannico Keir Starmer (alla guida del Paese Brexiter e in costante “relazione speciale” con gli Usa, anche in era Trump).
La loro prima iniziativa “autonoma” – la proposta di un mese di tregua tra Russia e Ucraina – sembra peraltro già in panne. La mossa (anticipata dal francese Le Figaro) non è stata confermata da Starmer ed è stata accolta con freddezza da Volodymyr Zelensky, che vi ha scorto un tentativo di re-imporre per sponda europea il cessate il fuoco fortemente voluto da Donald Trump, tre giorni dopo il clash dello Studio Ovale. Anzi: il presidente ucraino sta lanciando segnali possibilisti sulla firma dell’accordo minerario con gli Usa, che era in programma venerdì a Washington e che Trump continua a pretendere senza condizioni.
Già questo – dietro gli abbracci e le dichiarazioni di facciata a Londra – appare significativo dell’incerta forza e credibilità geopolitica della “nuova Europa” autoinvestitasi al summit londinese. I cui effetti interni all’area continentale, tuttavia, non si profilano lievi, e il primo test è in agenda già fra quarantott’ore al Consiglio straordinario della Ue a Bruxelles.
Il palazzo della Commissione, al pari del quartier generale della Nato, poco distante nella capitale belga, sono stati virtualmente bombardati da Londra. Benché il summit “Per la nostra futura sicurezza” abbia avuto premesse ed esiti incerti, ha delegittimato in modo sicuramente grave (e forse intenzionale da parte di Trump-Starmer) sia l’Ue sia il Patto Atlantico. E per Ursula von der Leyen il primo impegno si annuncia davvero insidioso: rivendere al Consiglio dei 27 gli orientamenti maturati domenica in una sede non Ue (perfino anti-Ue). Von der Leyen si ritroverà anzitutto al fianco la vice Kaja Kallas, l’ex premier estone appena nominata “ministro degli esteri e della sicurezza” della Ue; furente perché esclusa dal summit di domenica (l’antiputinismo radicale suo e di tutti i baltici non piace alla Casa Bianca).
Al tavolo di Bruxelles ci sarà anche – a pieno titolo – un altro premier tenuto lontano da Londra: l’ungherese Viktor Orbán, “signor no” considerato filorusso dentro la Ue e bersaglio simbolico di tutti i “fronti democratici” in Europa. Ci sarà ancora il cancelliere tedesco dimissionario Olaf Scholz – già fantasma a Londra –, mentre il candidato cancelliere Friedrich Merz pare già in mezzo al guado a Berlino nella formazione di un nuovo governo, nella cui agenda appaiono già punti problematici il finanziamento del riarmo tedesco e il possibile ingresso della Germania sotto un (oggi ipotetico) ombrello nucleare franco-inglese.
Proprio domenica mattina, intanto, uno scoop del londinese Financial Times ha rivelato un piano allo studio fra Mosca e Washington per la riattivazione del gasdotto Nord Stream 2 fra la Russia e la Germania: possibile premessa di una normalizzazione delle forniture russe, non solo all’economia tedesca in recessione.
Merz – con un blitz a Parigi non ufficialmente confermato – sembra aver dato a Macron una sorta di delega europea e geopolitica per le prossime settimane cruciali, quando il leader della Cdu non avrà alcun titolo per intervenire a nome del più importante Paese-membro della Ue. Di questo, presumibilmente, si fa forte Macron, che resta peraltro instabile in Francia. Starmer si muove invece su un diverso filo del rasoio: quello di un premier debole in una Gran Bretagna ancora malata sul piano economico e sociale, e di un leader laburista che si ritrova di fatto nel ruolo di portavoce di Trump in Europa.
È comunque a favore di questa “Europa” – per molti versi indefinibile e virtuale – che il 15 marzo è stata indetta a Roma una grande manifestazione da parte di Michele Serra, intellettuale emblematico di tutte le sinistre politicamente corrette italiane. È fra l’altro l’elettorato di riferimento di Sala, che nel 2021 è stato riconfermato sindaco nei panni politici formali di un “verde europeo”. Vedremo ora se anche lui marcerà da Milano su Roma.
E sarà interessante vedere chi sarà in corteo oltre alla leader del Pd Elly Schlein, fra l’altro cittadina americana ed ex attivista per Joe Biden. Per esempio: se ci sarà Romano Prodi, ex presidente della Commissione Ue, oggi fra l’altro capo del “partito cinese” in Italia.
Se sarà a Roma sarà difficile non intravedervi una delega tacita da parte del presidente “dem” della Repubblica Sergio Mattarella, regista del ribaltone di governo del 2019 e legato quasi personalmente a Macron dal Trattato del Quirinale del 2021 (premier firmatario Mario Draghi, citato da Macron al Foglio).
Vedremo se fra le nuove “euro-sardine” spunterà Paolo Gentiloni, negli ultimi cinque anni commissario agli affari economici dell’ormai “vecchia” Ue: che potrebbe essere mantenuta in vita come “autorità regionale” dell’euro e dei suoi parametri tecnocratici. A una classico appuntamento movimentista anche a impronta cattodem potrebbe aderire Andrea Riccardi: ex ministro di Mario Monti (l’europeista italiano più inflessibile nel sostenere l’eurocrazia come strumento di controllo esterno sul suo stesso Paese).
Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, è da sempre vicinissimo a Macron. E Sant’Egidio è la casa del cardinale Matteo Zuppi, leader dei vescovi italiani a sua volta vicino al centrosinistra italiano e vicinissimo a Papa Francesco, che molti considerano il leader globale dell’opposizione a ogni “trumpismo”.
I rischi di un classico “girotondo” (Serra è un clone del regista Nanni Moretti) saranno peraltro quelli di sempre: riuscire a “dire qualcosa di sinistra” che abbia significato politico e coerenza minima nel marzo 2025. L’Europa “di Macron e Starmer” vuole “la pace fra Russia e Ucraina”: ma è l’obiettivo fissato da Trump (la stessa “pace” già imposta a Israele e Hamas) a cui Zelensky ha già clamorosamente detto no alla Casa Bianca.
E la “pax europea” nell’Est inizierebbe con l’invio di truppe (peraltro le forze armate italiane sono già state impiegate nell’operazione Nato in Kosovo, premier Massimo D’Alema e ministro della difesa lo stesso Mattarella).
La “nuova Europa” si fonda su una strategia di costoso riarmo, con tutta evidenza a spese del welfare e degli investimenti verdi (anche se forse con la rapida riconversione militare dell’industria dell’auto, in crisi ovunque sul Vecchio Continente). L’Europa all’affannosa ricerca di sicurezza vuole aprire subito ombrelli nucleari militari quando anche il governo italiano di destra-centro ha messo in cantiere il ritorno del nucleare civile per aumentare l’indipendenza energetica del Paese.
Non da ultimo: l’Europa sembra volere il ritorno di un’oligarchia di pochi grandi Stati e l’abolizione brutale della governance faticosamente costruita in quasi settant’anni di Ue: con la parità fra tutti i Paesi che vi hanno via via aderito e un ruolo crescente per il Parlamento democraticamente eletto.
Vedremo se Macron in Europa e Sala in Italia sapranno risolvere tutti i rebus e “ribaltare” partite che sul piano della democrazia elettorale dall’inizio della crisi geopolitica non hanno mai avuto storia.
PS: in Italia sarà interessante osservare le mosse dei fratelli Berlusconi, teoricamente in grado di scambiare una crisi della maggioranza Meloni in Italia attraverso FI (Ppe) con una rilegittimazione del polo MediaForEurope nella “nuova Europa”, via possibile rafforzamento in Germania mediante l’aggregazione di PoSiebenSat1.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.