In giorni frenetici fra telefonate ed annunci, mentre la nostra politichetta si concentra come in un film brutta copia di Nanni Muretti sul dibbattito demenziale su quanto l’Italia è rilevante (?), se la presidente del Consiglio sia o no presente nelle fotografie, ci fosse un qualche straccio di giornalista “de sinistra” con la lucidità di guardare la drammaticità dei fatti.
E il primo, evidentissimo, sarebbe che russi e ucraini si incontrano, dopo anni di guerra in cui nessun volenteroso, né come singola entità né come Unione Europea nel suo complesso, ha mosso un dito. Dopo, ripetiamo, aver subìto prima l’azione russa e poi l’iniziativa di Biden, compresa la guerra commerciale.
E allora conviene tornare, come a scuola, ai fondamentali.
La metafora della “guerra mondiale a pezzi” di Papa Francesco indica in una sola espressione ben quattro elementi: la molteplicità dei conflitti, la loro relazione, la rilevanza globale, la diversità di questa conflittualità da quella delle altre guerre mondiali. D’un colpo, abbiamo l’immagine della realtà nella sua drammatica novità e complessità.
Quello che ci colpisce della metafora è la produzione di un effetto di incertezza assoluta che merita il dovere dell’attenzione, perché corrisponde a realtà, come d’altronde ogni altro elemento della figura retorica menzionata.
Il fatto è che la fine del bipolarismo si traduce in una moltiplicazione di attori sulla scena internazionale, aumentando in modo esponenziale i momenti e le occasioni di crisi, perché l’incertezza dei comportamenti diventa un elemento costante, strutturale e fondante dell’intero sistema internazionale.
L’equilibrio di forze durante la Guerra fredda non è mai stato stabile, ma sempre dinamico, in una corsa dei due contendenti a spirale, fatta di mosse e contromosse. Fino ad arrivare al collasso dell’URSS, incapace di reggere il confronto con il rivale americano.
Una volta sparito il nemico, per meno di un decennio Washington e il mondo occidentale, per pigrizia, per comodità o impotenza, si sono illusi di poter dominare e determinare i giochi, dettandone le regole.
Sperando che esistessero ancora Paesi in via di sviluppo desiderosi di essere assimilati economicamente secondo le regole della globalizzazione e convertiti ai valori del libero mercato, oppure un Terzo Mondo – come si diceva – che, se riottoso (si veda il caso del Medio Oriente), fosse facilmente domato manu militari e addomesticato ai valori eterni della democrazia.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti: guerre combattute, guerre commerciali, guerre economico-finanziarie, guerre per l’accaparramento delle materie prime e delle ormai famose e famigerate terre rare, guerre informatiche nel cyberspazio. Non solo guerra a pezzi, ma a ogni livello.
Ma c’è una novità. Sul campo, in questo scenario da incubo, Washington non ha soldati. Ci sono russi, ucraini, indiani, pakistani, palestinesi, yemeniti, siriani, turchi, mercenari europei e quant’altro, ma non GIs (Government Issue, ndr). Venti anni fa, gli USA volevano ridisegnare il mondo. Adesso sembrano guardare con occhio lontano anche il dramma di Gaza. Niente boots on the ground. Finalmente la dottrina Weinberger-Powell, elaborata dopo la guerra del Vietnam, è riuscita a diventare realtà.
È da questa prospettiva che bisogna collocare l’incontro di Istanbul e la discussa telefonata col Cremlino. Se è vero che Trump deve mostrarsi al mondo come il pacificatore, è anche vero che, comunque vadano le cose, sta incassando dei risultati.
Con l’accordo minerario con l’Ucraina, il presidente americano ha segnato una linea estremamente chiara con Putin. Tre quarti dell’Ucraina sono sotto la sua protezione di fatto, una sorta di protettorato. Secondo, ha acquisito un notevole vantaggio economico. Terzo, sta agli ucraini e ai russi raggiungere un accordo: gli americani non sono parte in causa nel conflitto.
Ogni dilazione, se offusca l’immagine del tycoon, appunto per lui rimane un problema di immagine. Per altri è peggio. Per gli ucraini e i russi perché continuano a morire; per l’Unione Europea perché dimostra la sua inconsistenza nel suo ruolo di attore, per lo meno regionale, in un’area di sua pertinenza e perché drena enormi risorse economiche. Insomma, a stare peggio sono gli altri.
Ed è lo stesso discorso, la stessa strategia per il Medio Oriente. Perché tutto si tiene. Dalla benevolenza che ha dimostrato a Putin, Trump prende la forza per trattare con l’Iran. Se può far poco sulla strada della pace tra Israele e Hamas, molto fa sugli altri fronti. Si rileggano le cifre da capogiro degli accordi commerciali con l’Arabia e i Paesi del Golfo.
Perché lo scopo di Trump è sempre e solo uno: la ricostruzione della forza economica, scientifica e tecnologica del Paese. E per raggiungere questo scopo ha bisogno di tenersi lontano da ogni impegno militare in prima persona, a meno che non siano messi in gioco gli interessi strategici statunitensi.
Ma Trump non si accontenta: appena trova uno spazio vuoto, ne approfitta. Rivaluta la Turchia, Paese alleato nella NATO che dispone dell’unico vero esercito regionale capace di muoversi fuori area in funzione anti-iraniana, amico della Fratellanza musulmana e capace di ottimi rapporti con la Siria, di cui tesse in modo anche troppo disinvolto le lodi.
Una Turchia al centro del lavorio diplomatico tra Ucraina e Russia, ma anche attore protagonista nel Mediterraneo, dalla Siria a Tripoli. E comunque Paese musulmano sunnita, non arabo, erede di un impero, che tiene nascosta la carta del riconoscimento dello Stato palestinese.
Non si tratta di tessere le lodi per l’azione dell’erede di Biden. La situazione globale è destinata a rimanere caotica e difficile, ma il personaggio non può essere liquidato con facili battute, magari gioendo dei suoi insuccessi come se non ci riguardassero.
E lo stesso si può dire di Giorgia Meloni. Destreggiarsi in questo marasma non è cosa semplice: il rischio tra rimanere col cerino in mano o a sedere su uno strapuntino è sempre presente, specialmente in una partita complessa dove l’economia si intreccia in modo indissolubile e non lineare con la guerra.
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