Gli Usa lasciano il polo di aiuti all'Ucraina in Polonia. Il disimpegno è cominciato. E Zelensky per salvarsi svenderebbe il suo Paese
Gli Stati Uniti cominciano a lasciare le basi polacche e pensano di togliere dall’Europa 10mila soldati. Un segnale inequivocabile per l’Ucraina, minacciata più volte di accettare le condizioni poste da Washington (sulle materie prime) e da Mosca (sulla fine della guerra) per non essere completamente abbandonata a se stessa.
L’alternativa, comunque, se così si può chiamare, è consegnare a Washington le sue risorse minerarie ed energetiche e a Mosca buona parte del suo territorio. Eppure, spiega Maurizio Boni, generale di Corpo d’Armata e opinionista di Analisi Difesa, è proprio su questo che starebbe cedendo Zelensky, che anzi contratterebbe non solo il futuro del suo Paese, ma anche il suo personale.
Intanto, domani a Istanbul riprendono le trattative USA-Russia, che non si sono ancora sbloccate, con buona pace di Trump. Il presidente americano ha fretta di ottenere risultati, che non arrivano perché i russi non rinunciano alle loro condizioni. In tutto questo, l’Europa rimane ai margini, tutta presa da una narrazione della realtà che non tiene conto della sconfitta ucraina e con il pericolo di essere estromessa anche dalla ricostruzione.
Gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro di truppe e attrezzature dal principale polo di aiuti all’Ucraina che è in Polonia (nella zona di Rzeszow), mentre la NBC ripropone l’ipotesi dello spostamento di 10mila soldati USA dall’Europa. Il messaggio è che il disimpegno degli americani dall’Ucraina è già cominciato?
Sì, è un segnale chiaro, anche se in realtà Polonia e NATO si faranno carico del flusso degli aiuti sostituendo gradualmente gli Stati Uniti. Trump, comunque, l’ha detto chiaramente: “Se le trattative con l’Ucraina relative allo sfruttamento delle risorse energetiche nel dopoguerra non saranno soddisfacenti, gli USA ritireranno qualunque tipo di aiuto”.
Quello che forse è ancora più interessante è che Zelensky sta andando a negoziare la resa del patrimonio industriale ed energetico ucraino, probabilmente in cambio anche della sua sopravvivenza politica e della sua sicurezza.
Da alcune fonti sta emergendo che ha più a cuore il suo futuro che quello del suo Paese. La sua moneta di scambio sarebbero le risorse ucraine, da spendere per salvaguardare se stesso. Se così fosse, si troverebbe in una situazione molto difficile da giustificare agli occhi della sua opinione pubblica.
I suoi collaboratori, però, come Podolyak, dicono che vorrebbe ricandidarsi per la presidenza del Paese. Cosa vuole fare veramente?
Credo che sia fumo negli occhi. Di fatto, penso che Zelensky stia organizzando di andarsene. Trump ha ripetuto più volte che, secondo lui, il presidente ucraino non è fondamentale per il negoziato con la Russia.
Il Daily Telegraph dice che Zelensky sarebbe stato messo dagli USA di fronte a un bivio: accettare la pace che vuole Mosca o vedersi togliere il supporto da parte americana. Siamo di fronte a una resa dell’Ucraina?
Il Telegraph è quello che si è sbilanciato di più su questa ipotesi. Di fatto, si tratta di una resa, ma era inevitabile. Quello che è sconcertante, intanto, è come si sta comportando l’Europa.
Cosa è successo?
Il Parlamento europeo ha approvato il 2 aprile la relazione annuale 2024 sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune. Un testo che nell’introduzione parla di “scelta del regime russo di dichiarare guerra ai Paesi europei”.
Parole di una gravità inaudita, perché non c’è niente di vero. Mi domando come possa essere stato approvato, se chi lo ha votato lo ha letto veramente, perché rappresenta lo stravolgimento della realtà: la Russia non ha mai dichiarato guerra ai Paesi europei, eppure lo si scrive in un testo ufficiale del massimo organo istituzionale della UE.
Contemporaneamente, si sostiene che l’Ucraina deve essere dotata delle capacità militari necessarie che le serviranno per riportare una vittoria militare decisiva. Un discorso surreale, visto che l’Ucraina sta capitolando.
Peskov, intanto, ha annunciato che il confronto tra USA e Russia riprenderà il 10 aprile a Istanbul. Cosa significa la scelta della capitale turca?
Dopo Riyad e il ruolo dell’Arabia Saudita, adesso tocca alla Turchia, considerata un interlocutore credibile da tutte e due le parti. È membro della NATO, ha chiesto di entrare a far parte dei BRICS, mentre è attiva anche una procedura per aderire alla UE. Inoltre, è ormai il Paese più potente militarmente e politicamente del Mediterraneo allargato: si è ritagliata, insomma, un ruolo politico di primo piano.
Si tratta di una tappa importante nelle trattative o interlocutoria?
Non sarà decisiva. I russi continuano a ribadire che gli americani non forniscono le risposte che loro si attendono: una circostanza che innervosisce Trump più di ogni altra cosa. Il presidente USA vorrebbe risultati visibili, concreti e soprattutto rapidi.
Però la rapidità non si sposa con la complessità. Si confronteranno ancora i team dei negoziatori: siamo ancora lontani dall’approccio diretto tra Putin e Trump. Non siamo, in altri termini, al livello finale del negoziato.
Zelensky, intanto, ufficialmente fa ancora dichiarazioni bellicose. Dice che perché i negoziati abbiano luogo basterebbe che i russi non fossero assassini. Come si spiega questa postura se dal campo di battaglia giungono notizie niente affatto tranquillizzanti per Kiev?
Zelensky è guidato soprattutto dal Regno Unito e in parte dalla Francia. La Gran Bretagna va contro l’agenda russo-americana, oramai è evidente, lo riconosce anche la stampa internazionale. Lo scenario più probabile, però, è che il presidente ucraino molli il colpo e si vada verso una pace modellata sulle condizioni della Russia.
Accettando le condizioni capestro poste dagli USA nell’accordo sulle risorse minerarie e l’energia, è come se gli americani considerassero l’Ucraina Paese vinto. Gli Stati Uniti avrebbero potere di veto anche sugli eventuali partner ucraini. Non per niente Trump ha affermato che la miglior garanzia di sicurezza per le infrastrutture industriali ucraine starà nel fatto che gli USA le possederanno.
Un teorema che esclude l’Europa anche dalla gestione del dopoguerra?
Questo è un grosso problema per l’Europa, che vuole investire sulla ricostruzione. Lo farà se sarà gradito agli americani. La UE ha bisogno di un ricambio politico: non può andare avanti con questa classe dirigente, che non ha capito in che guaio ci stavamo cacciando e ora non riconosce neanche i suoi errori.
(Paolo Rossetti)
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