Moltissimi americani (ovviamente soprattutto tra i repubblicani) sono convinti che le elezioni 2020 siano state truccate e che lo stesso sia avvenuto, almeno in alcuni Stati, anche per le elezioni di medio termine. Il fatto stesso che per scrutinare i voti di alcuni Stati-chiave come Nevada e Arizona ci siano voluti molti giorni è per essi una prova dei “brogli”.
Trump accusa, ma i fatti vanno provati o sono mera propaganda. Quasi nessun giudice ha mai dato ragione all’ex presidente, ma certo il sistema di voto americano è molto cambiato negli ultimi tempi e il voto “non fisico” ai seggi elettorali sta diventando un dato sempre più importante, prestandosi – come ovunque – a potenziali manipolazioni.
Perché si apre subito un’altra questione: “chi” effettivamente vota negli Stati Uniti? Noi siamo abituati a votare in un seggio presentandoci con un documento di identità e la tessera elettorale, ma chi vota “per posta” negli Usa (e anche in molti seggi, una volta registrati) non deve fornire una prova di identità, né dimostrare di essere cittadino americano, né mostrare i documenti. Il fatto è che milioni di persone negli Usa non hanno fisicamente documenti: immigrati, nativi americani, eccetera. In più, in questi anni i democratici hanno condotto campagne perché “tutti” possano votare, anche senza documenti ufficiali.
Sia chiaro che questo vale anche in casa nostra: il voto per eleggere il nostro stesso Parlamento per la quota degli italiani residenti all’estero (che votano per posta) è da sempre pesantemente inquinato da brogli, soprattutto in America Latina, con risultati manifestamente falsi che la magistratura ha denunciato più volte come tali, ma senza che ciò abbia portato a sostanziali variazioni di una legge che si presta ad evidenti imbrogli.
Il problema – per i nostri emigrati, così come negli Usa – è come sia sempre difficile accertare “chi” abbia effettivamente votato se lo ha fatto a distanza, e se il suo voto sia stato libero o condizionato. È chiaro che sindacati, patronati, parrocchie, congreghe fondamentaliste, circoli e associazioni possono radunare i “soci” e spingerli a votare tutti insieme in un certo modo, quando non compilando direttamente le schede facendosele consegnare e spedendole direttamente, come in molti casi accertati per le “nostre” elezioni all’estero.
Ma torniamo agli Usa, dove in occasione delle elezioni 2020 sono effettivamente emersi dati preoccupanti. Per esempio J. Christian Adams, presidente della Public interest legal foundation (Pilf), dopo aver studiato i dati raccolti dalla Commissione di assistenza elettorale (US election assistance commission), sottolinea che nelle elezioni 2020 per la Casa Bianca sarebbero state spedite dai diversi Stati agli elettori 90,6 milioni di schede elettorali, di cui 1,1 milioni sono però risultate “non consegnabili” (undeliverable), 560.814 “respinte” (rejected), ma addirittura 14,7 milioni sono risultate “disperse”, ovvero non si sa se siano state votate o meno, perché si possono chiedere le schede e poi votare personalmente oppure in alcuni Stati vengono comunque spedite a tutti gli elettori. In alcuni Stati (come in Florida) il voto per posta è comunque “tracciato”, in altri no.
Se negli Stati in bilico qualcuno raccogliesse un un quantitativo sufficiente di queste schede rispedendole compilate – teoricamente con l’assenso di chi le ha in mano, ma praticamente anche no –, potrebbe agevolmente vincere le elezioni. Questo per dire che il maggiore ricorso al voto postale ha sicuramente influito sull’esito delle elezioni presidenziali.
Eclatante il caso del Wisconsin, dove Biden nel 2020 ha vinto per 20.682 voti: in questo Stato sono stati spediti per posta 1,4 milioni di voti, pari all’86% dei voti espressi (1,6 milioni), mentre nel 2016 erano state spedite per posta solo 158.846 schede, l’11% dei voti espressi allora (1,4 milioni). Sempre nel Wisconsin, però, su 1,4 milioni di schede inviate, ben 82.766 sono poi risultate nulle, numero quattro volte maggiore del margine di vittoria di Biden su Trump, decisivo per ottenere i dieci seggi dello Stato.
Dato sconcertante, vista anche la campagna democratica che per mesi aveva invitato con spot pubblicitari gli elettori a votare per posta: “Risparmia tempo. Evita la fila. Vota da casa”. I repubblicani sostengono che dietro c’erano i milioni di George Soros, da sempre finanziatore dei democratici e soprattutto la fondazione “Vota da casa”, fondata dalla democratica Amber McReynolds e finanziata con milioni di dollari da Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook.
“Non si eleggerà più un candidato repubblicano in questo Paese”, aveva sintetizzato in primavera a Fox News lo stesso Trump. “Migliaia di persone potrebbero mettersi in salotto a riempire schede altrui”, aveva aggiunto.
Le accuse vanno provate, ma è evidente che più si allungano i tempi per votare più i voti per posta diventano determinanti, perché – va ricordato – negli Usa c’è anche un terzo modo di votare, ovvero presentarsi ai seggi nei giorni precedenti al voto: un sistema pratico per chi è assente il giorno delle elezioni, ma almeno riscontrabile. Chiusi i seggi, si possono aspettare ancora per più giorni le schede votate: da 3 a 9 giorni, addirittura a Washington DC fino al 25 novembre. Per contro, in alcuni Stati gli scrutini cominciano prima del giorno elettorale, in altri invece solo successivamente al voto manuale.
Ritorniamo al punto di partenza, ovvero “chi” vota. Per votare negli Usa bisogna infatti iscriversi nelle liste elettorali, ma per iscriversi basta un’autocertificazione. Una volta iscritti, alcuni Stati praticano la “mail-in ballot”, ovvero la scheda per votare viene spedita a tutti gli aventi diritto in ogni caso, senza che sia richiesta, e gli elettori poi possono riconsegnarla a mano al seggio o spedirla. In cinque Stati dell’Ovest — Washington, Oregon, Colorado, Utah e Hawaii — il voto via posta è addirittura il metodo principale, mentre California, Nebraska e North Dakota mettono questa possibilità in mano alle singole contee.
Ma è vero che i democratici votano di più per posta e i repubblicani invece vanno ai seggi? Interessante una ricerca della Nbc e del Wall Street Journal, che stimano come oltre il 30% degli elettori complessivi ormai voti per posta, il 20% si esprima con il voto anticipato e il 43% si rechi effettivamente ai seggi elettorali. Secondo la ricerca, chi ha votato per posta ha “pesato” per l’11% su tutti i voti repubblicani, ma per ben il 47% sui voti democratici, mentre il 60% degli elettori repubblicani ha votato nei seggi contro solo il 26% dei democratici e il resto – ma sostanzialmente esprimendosi in parità tra i due schieramenti – ha votato ai seggi, ma in anticipo.
Ovvio, quindi, che i repubblicani vogliano un maggior controllo sul voto postale e sull’identità dei votanti, tenuto conto che sembrerebbe come i democratici siano molto più organizzati per intercettare voti postali, forse anche per il loro controllo sui sindacati e le lobby.
Difficile pensare, infatti, che la malavita non abbia cominciato a interessarsi di questo “business”. Un indizio proprio in Nevada, dove i repubblicani hanno vinto in tutte le contee, salvo Reno e Las Vegas, che – da sole – proprio con il voto per posta e quasi una settimana di scrutini hanno determinato di un soffio il successo del senatore democratico, che permetterà ai “blu” di controllare il Senato.
Certamente la questione si farà sempre più rilevante, così come l’aumento esponenziale delle polemiche e dei ricorsi alla Corte Suprema.
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