Lunedì, durante l’ennesimo episodio di volatilità dei mercati, Trump, alla Casa Bianca. ha incontrato le principali catene di distribuzione americane tra cui Walmart, Home Depot e Target. L’incontro è stata l’occasione per una discussione sugli impatti dei dazi; nessuno meglio dei “retailers” può tradurre in realtà l’impatto della politica commerciale americana. Intanto per la “chief economist” per gli Stati Uniti di Bloomberg, Anna Wong, c’è un’alta probabilità che nei prossimi 3-5 mesi si possano vedere molti scaffali vuoti.
Nessuno sa come procederà una guerra commerciale in cui nelle ultime settimane si è già annunciato tutto e il contrario di tutto; “3-5” mesi sono un tempo sufficientemente lungo per risolvere alcune delle conseguenze peggiori che potrebbero verificarsi se lo status quo non si modificasse. A oggi, però, c’è un embargo sostanziale sulle esportazioni della Cina verso gli Stati Uniti. Certo, si può speculare sull’attenzione o meno con cui l’America deciderà di controllare le rotte delle navi cargo; chi ha partecipato alla riunione di lunedì ha sicuramente elementi in più. Assumiamo, però, che le dichiarazioni siano coerenti con le azioni.
Molte catene di distribuzione nelle ultime settimane hanno deciso di comunicare quanta parte dei beni venduti è prodotta in America e in molti casi questa percentuale è superiore al 50%; per alcune catene ci si avvicina ai due terzi. Queste però sono medie che rischiano di portare fuori strada. Quello che importa non è quanta parte dei beni venduti sia prodotta in America o in Paesi che oggi non sono colpiti dai dazi. Ciò che importa è quanta parte di uno specifico bene o settore merceologico sia prodotta in Cina.
Una famiglia che deve acquistare, supponiamo, un paio di scarpe e una camicia non può dire di aver ottenuto un risultato equivalente se torna a casa senza scarpe ma con due camicie. Ci sono settori, uno è sicuramente quello delle calzature, in cui la quota di mercato cinese si stima superiore al 50%. Più si scende nelle fasce di prezzo, più la quota di mercato aumenta e questo aggrava il problema per le maggiori catene di distribuzione.
La disponibilità o meno di prodotti sugli scaffali ha riflessi su più piani. C’è quello economico, tanto più per un’economia fortemente esposta ai consumi, in cui le famiglie, non trovando il prodotto, decidono di rimandare l’acquisto. C’è un tema di prezzi di breve e lungo termine; di breve termine perché la scarsità non fa rima con prezzi in calo e di lungo termine perché sostituire un produttore efficiente come la Cina, con le fabbriche sussidiate dallo Stato, implica comunque un peggioramento per i consumatori in termini di prezzi.
C’è poi un tema sociale e psicologico per una popolazione che dà per scontata un’ampia disponibilità di beni. Anche assumendo una parziale marcia indietro dell’Amministrazione americana oppure un’inversione ci sono comunque effetti durevoli. Le catene di distribuzione oggi sono obbligate a considerare la probabilità di non poter mettere sugli scaffali alcuni prodotti; questo è lo scenario peggiore in assoluto.
Significa che si esploreranno soluzioni alternative alle forniture cinesi indipendentemente dai prossimi aggiornamenti sulla guerra commerciale e che l’incertezza attuale sta già producendo effetti sui mercati “fisici”.
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