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Home » Economia e Finanza » USA vs CINA/ La partita decisiva che si gioca in Asia orientale

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USA vs CINA/ La partita decisiva che si gioca in Asia orientale

La guerra commerciale in corso crea una "nebbia" di incertezza ed è in Asia orientale che si gioca la partita decisiva

Andrea Pomella
Pubblicato 25 Aprile 2025 - Aggiornato alle ore 06:13
Il Dow Jones (Ansa)

Il Dow Jones (Ansa)

Al centro di quella che sembra essere la tempesta perfetta in cui si intrecciano shock finanziari e tensioni geopolitiche, i mercati globali si muovono nella “nebbia di guerra commerciale” che ricorda la “fog of war” di cui parlava Clausewitz in cui regna l’incertezza e l’impossibilità di prevedere le azioni del nemico.


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Goldman Sachs ha segnalato che, in uno scenario estremo di “decoupling” fra Stati Uniti e Cina, gli investitori Usa potrebbero trovarsi costretti a dismettere oltre 800 miliardi di dollari in diverse classi di azioni cinesi: le Ashares, azioni quotate sulle borse di Shanghai e Shenzhen, denominate in renminbi e tradizionalmente riservate a investitori domestici, e le Hshares, stesse società ma negoziate a Hong Kong in dollari di Hong Kong – senza dimenticare gli ADRs negli Stati Uniti – contraendo la liquidità e dilatando i premi al rischio sull’intero mercato equity.


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Parallelamente, l’annuncio dei dazi “reciproci” del 2 aprile da parte del Presidente Trump ha provocato un’anomala ondata di vendite sui Treasury Usa: i rendimenti a 10 e 30 anni sono saliti anziché scendere, dimostrando che persino il tradizionale “bene rifugio” soffre le conseguenze delle politiche protezionistiche. La rapida chiusura delle basis trades – strategie di arbitraggio che combinano l’acquisto di Treasury in contanti con la vendita di futures – ha riversato massicce quantità di bond sul mercato, accentuando l’impennata dei rendimenti.


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Per ridurre l’impatto degli switch costs causati dalla guerra commerciale, le imprese globali hanno attivato strategie per individuare delle real options con le quali riorientare la propria produzione. Ad esempio, Apple ha intensificato la produzione in India e Vietnam sfruttando la pausa di 90 giorni sui dazi Usa, dirottando crescenti volumi di iPhone verso questi centri emergenti, la Honda, dal canto suo, pianifica di spostare il 90% degli stabilimenti nordamericani negli Stati Uniti per evitare il 25% di tariffa sulle auto importate.

Sul piano diplomatico, la Cina ha risposto con una tournée in Vietnam, Malesia e Cambogia, firmando memoranda su infrastrutture e supply chain per costruire un fronte multilaterale contro le oscillazioni americane. Il Giappone ha richiamato al multilateralismo attraverso un colloquio fra il Premier Shigeru Ishiba e il collega singaporiano Lawrence Wong, seguito dall’invio del negoziatore Ryosei Akazawa a Washington per chiedere la rimozione delle tariffe. Tuttavia, come hanno osservato testate come Nikkei Asia e South China Morning Post, è l’Asia sudorientale a trovarsi più esposta.

Le tariffe medie del 33% imposte dall’Amministrazione Trump hanno messo in luce la vulnerabilità dell’Asean, che realizza soltanto il 21% del proprio commercio interno, contro il 60% dell’Ue . Il Primo ministro malese Anwar Ibrahim ha parlato di “disfacimento dell’ordine globale” e rilanciato l’urgenza di rafforzare il commercio intrablocco, ma economie dipendenti dall’export, disparità di reddito e barriere non tariffarie ne rallentano l’integrazione.

Secondo Fitch Solutions, le tariffe Usa potrebbero sottrarre fino a tre punti percentuali alla crescita del Pil del Vietnam e circa un punto a quella di Singapore, con un impatto medio regionale di 1,5 punti.

In questo quadro, chi opera in Asia resta intrappolato nella “nebbia” di questa guerra commerciale: deflussi azionari, impennate dei rendimenti obbligazionari e frammentazione delle filiere produttive mettono a rischio gli spazi di manovra fiscale e monetaria.

In questa fase, in cui l’economia mondiale e lo scenario geopolitico si trovano a un crocevia decisivo è in Asia orientale che si gioca la partita decisiva. Una regione che ha storicamente fondato la propria prosperità su fitte reti commerciali regionali, dove la resilienza delle filiere produttive e l’integrazione commerciali possono rappresentare una delle poche certezze rimaste. A ogni modo, questa congiuntura – segnata da deflussi azionari, cessioni di Treasury e riconfigurazione delle filiere produttive – impone agli attori regionali l’adozione di un insieme di politiche finanziarie integrate, in grado di preservare la stabilità del sistema.

Ciò richiede che strumenti macroprudenziali, come le swap line tra Fed, Bce e Pboc per garantire la necessaria liquidità in dollari, siano utilizzati in modo concertato con un rafforzamento delle istituzioni multilaterali – dalla New Development Bank al Fmi, dalla Banca Mondiale alla Wto. Un’operazione di messa in sicurezza del sistema che solo agli attori finanziari asiatici – banche centrali sovrane, fondi sovrani e mercati dei capitali regionali – possono operare grazie alla lungimiranza e alle risorse di cui dispongono e con cui possono fornire la necessaria liquidità.

Ma, nella drammatica fase attuale, questa finestra di opportunità si sta rapidamente chiudendo e il rischio di precipitare in un vortice di instabilità sistemica e oneri finanziari insostenibili non è mai stato così alto.

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Tags: Donald Trump

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