Temettero, i crocifissori, che l’Uomo Crocifisso cedesse anzitempo lungo la salita del Golgota: le botte da orbi, la fustigazione, il sangue perso dovunque, le spine nella testa potevano rischiare d’ammazzarlo ben prima d’aver raggiunto la cima della montagna miseranda. Per non far finire in anticipo lo spettacolo, gli concedono un aiutino dal pubblico: “Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui”.
Simone sta rincasando dai campi quando incappa in questo singolare corteo: o, forse, è uno dei tanti che sono lì a spiare per vedere che effetto faccia vedere il dannato andare alla morte. O, meglio ancora, è uno dei tanti negri d’Africa ai quali viene comandato di fare i lavori più da bestie.
Sua sponte, non gli vien in mente di fare questo gesto pietoso: “Lo costrinsero”. Fatto sta che, anche in tal caso, c’è qualcuno che presta qualcosa di ciò che Cristo non possiede: siano le spalle o le forze, è la prima volta che il Cristo lascia la sua croce a qualcuno. Ha le spalle grosse, Simone. È avvezzo all’opera dei campi, allo sforzo di chi va a portare fuori la legna dal bosco, è un cavallo da tiro.
Non è misericordia quella che i soldati usano attraverso Simone: è solo voglia che lo spettacolo non cali di intensità, per non dover restituire il biglietto al pubblico pagante. Lui, da par suo, se ne infischia: siccome l’han costretto, non batte ciglio. Una cosa è certa, però: racconta Paolo che i figlioli di Simone, Alessandro e Rufo, son diventati cristiani un giorno. Quel volto massacrato, evidentemente, aveva un che d’inarrestabile.
Fu così che, dopo aver chiesto in affitto un po’ tutto per far la vendemmia – puledro, stanza, brocca d’acqua, le spalle – Cristo, dopo che ha vendemmiato i piedi dei discepoli, raccogliendo briciole, sbadigli e mugugni, va incontro alla sua pigiatura: perché il grappolo diventi vino, c’è un torchio da attraversare. Il torchio che esercitò la più alta pressione mai esercitata: “Quando giunsero al luogo del Cranio, là crocifissero lui” (Lc 23,33).
La pigiatura dell’uva la fa il libero sfottò del passante: “Tu che distruggi il tempio di Dio e in tre giorni lo riedifichi, scendi giù dalla Croce” (Mt 27). Schiacciano sull’acceleratore: “Lasciate che vediamo se viene Elia a tirarlo giù” (Mc 15). Pure i soldati si mettono a rimpolpare il popolo con le bave alla bocca: “Se tu sei il Re dei Giudei, salva te stesso” (Lc 23).
Lui, sangue in bocca, non replicare all’offesa con l’offesa: sarebbe come lavare il fango con il fango. Anche gli sgarbi quotidiani, un giorno, riciclerà a suo favore: permetteranno meglio al mondo, l’indomani, di valutare chi li ha compiuti. Lui, dopo la pigiatura nella Via Crucis, accetta il torchio del Golgota: “‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’. Detto questo, spirò” (Lc 23,43). Nell’immediato avrà sempre la meglio il torchio sul grappolo, ma vale bene sapere che in un mondo di serpi non vince chi ha il veleno più forte ma chi ha l’antidoto.
Appena l’Uomo diventa cadavere, l’avviso comunale è gettarlo nell’umido: l’odore della carne putrefatta attira le mosche, allontana la clientela della città. È Giuseppe d’Arimatea, in compagnia di Nicodemo a fare credito, anche stavolta, all’amico disossato come le bestie. Ha bisogno di muscoli e cuore, adesso, il Cristo.
Cerca qualcuno disposto ad affittarglieli: “Giuseppe d’Arimatea chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù (…) Andò e lo prese”. Non è da solo ad accreditare pietà al Crocifisso: “Vi andò anche Nicodemo e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” (Gv 19,38–39). Gli riservano i gesti folli dell’amore più ospitale: in un lenzuolo di lino avvolgono il corpo dell’Uomo che, seppur di nascosto, avevano amato e inseguito. Quando, pii devoti, lo rimettono in mano alla Madre Dolorosa, a lei sembra d’essere ritornata a Betlemme: non ha il color bianco degli infanti, ha il vermiglio dei cadaveri. È sempre suo Figlio: “Non ti preoccupare per il sepolcro, Maria. Usa il mio” rincuora Giuseppe. Dopo la pigiatura, il mosto viene deposto nella botte di legno. L’umido può aspettare.
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