Il dopo-Francesco è già cominciato: oggi si terrà la prima congregazione generale dei cardinali, che non ha solo il compito operativo di gestire la “ordinaria amministrazione” durante la Sede vacante, ma di permettere ai cardinali di confrontarsi, in modo discreto, sui “problemi della Chiesa nel momento presente e la scelta illuminata del nuovo Pontefice”, dice la Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis.
È in questo confronto che comincia a maturare la scelta del successore di Pietro. Al centro della riflessione ci sarà di conseguenza il pontificato appena concluso. Che papa Francesco abbia cambiato il pontificato è fuori discussione, ma qui cominciano le domande e la sfida.
Ne abbiamo parlato con Andrea Grillo, teologo laico, docente di teologia dei sacramenti e filosofia della religione nel Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma.
Professore, le semplificazioni hanno preso in ostaggio Bergoglio, il papa che viene “dalla fine del mondo”, il “pontefice del sud globale” e via dicendo. Proviamo ad andare alla radice. C’è secondo lei in Bergoglio un’intuizione teologica che viene prima di tutto il resto?
Mettiamo per un attimo da parte i condizionamenti strettamente biografici, pur importantissimi, l’essere argentino e gesuita. Due mi sembrano i punti fondamentali. Il primo è che Jorge Mario Bergoglio è diventato prete dopo il Concilio Vaticano II e ha fatto della parola del Concilio il criterio fondamentale per interpretare se stesso come prete, la Chiesa nella quale ha vissuto, e la Chiesa che si è trovato a guidare come successore di Pietro.
Dunque un papa interamente figlio del Concilio. E il secondo punto?
Trovarsi nella condizione, sessant’anni dopo il Concilio, di fare ciò che il Vaticano II ha invitato a fare: costruire una Chiesa che riconosce a sé stessa l’autorità di rileggere la propria tradizione. A mio avviso questi due fattori sono importantissimi per capire Francesco in tutti i suoi aspetti, più evidenti e meno evidenti, più riusciti e meno riusciti.
In che modo questa eredità giocherebbe negli aspetti che lei definisce meno riusciti?
Nel senso che forse i punti di resistenza sono stati quelli in cui Francesco ha fatto più fatica a entrare in questo ruolo, quello di papa interamente figlio del Concilio.
Infatti un papa come Ratzinger ha avuto con il Concilio un rapporto molto più problematico rispetto a Bergoglio.
Certo. Anzi, sotto questo profilo Benedetto XVI, Giovanni Paolo II e Paolo VI sono tutti accomunabili. Sono stati tutti padri conciliari, anche Ratzinger che non era vescovo ma teologo esperto. Tutti – Ratzinger, Wojtyła e Montini – hanno sempre avvertito una grave responsabilità verso quel Concilio che avevano contribuito a determinare.
Responsabilità fino al senso di colpa?
Sì, anche fino al senso di colpa, nel momento in cui il post–Concilio assumeva pieghe e sviluppi per loro difficili da capire, o da ammettere.
Bergoglio, invece?
Bergoglio, da figlio del Concilio, non ha avuto i problemi dei predecessori. Esattamente come i problemi che i figli possono avere verso i padri sono completamente diversi da quelli che i padri sperimentano verso i figli. Questo in Ratzinger è stato evidentissimo proprio alla fine del suo pontificato. Si potrebbe addirittura considerare l’intero pontificato di Benedetto XVI come il tempo di un continuo rovello sulla possibilità di avere causato “qualcosa” nella Chiesa che starebbe all’origine delle sue attuali difficoltà.
Torniamo a papa Francesco come figlio conciliare.
Francesco parte dalla parola conciliare, la fa sua e si pone il problema – nuovo per un papa – di acquisire l’autorità che il Concilio ha dato alla Chiesa, a così tanti anni di distanza, per decidere sulla tradizione. Francesco scrive l’Evangelii Gaudium, il documento programmatico, e apre una fase sinodale che dura tutto il pontificato.
Cosa vuol dire, uso le sue parole, “decidere sulla tradizione”?
È il problema di decidere se la tradizione sia solo un passato da replicare oppure se la stessa tradizione “liberi” la Chiesa verso nuove forme di testimonianza e di presenza nel mondo. In più, questa eredità del Concilio si unisce in Bergoglio al dato autobiografico.
Lei ha scritto che quella di Bergoglio è una teologia “immersa nella vita”. Poi afferma che questa teologia è come se presentasse una sorta di deficit di elaborazione, di sviluppo. È così?
Sì, è così. Francesco presenta un’audacia che è il vero esito del Vaticano II, ma l’uscita dall’autoreferenzialità della Chiesa ha bisogno di una elaborazione specifica per diventare efficace. Poiché la grazia “primerea”, tocca a noi primerear, prendere l’iniziativa. E infatti iniziare nuovi processi è la grande intenzione di Bergoglio. Come si conducono però? Il Papa da solo non ce la fa. C’è bisogno di tutta la Chiesa.
Continui.
C’è bisogno di riformare il diritto canonico, di riformare la struttura, diremmo “gerarchica”, della Chiesa. Tutti questi passaggi Bergoglio li ha toccati, ha usato slogan formidabili come “capovolgere la piramide” (relativa alla centralità dei laici nella Chiesa, nda), o come quando ha detto che “la riforma liturgica è irreversibile”. Questi slogan rilanciano un’applicazione del Concilio a sessant’anni di distanza.
Lei sembra sottintendere che quei passaggi sono stati intrapresi, ma non ultimati. Come se terminassero in altrettanti puntini di sospensione.
Sì, perché implicano un lavoro teologico e pastorale che non spetta al papa, ma che deve fare tutta la Chiesa, quella centrale e quella periferica. Ogni diocesi deve assumersi la responsabilità di prendere l’iniziativa.
Cos’è successo, invece?
In questi 12 anni nella Chiesa la tendenza dominante è stata quella di aspettare che il Papa dicesse cosa fare.
Direi che è risultato molto evidente alla recente Assemblea sinodale italiana, dove il voto sulle 50 proposizioni finali è stato rinviato.
Uno dei tratti che ha messo in difficoltà padri e madri sinodali è stato che nelle proposizioni si continuava a invocare che i vescovi prendessero l’iniziativa. Un’assemblea sinodale consapevole deve avere l’audacia di formulare proposte, che dovranno essere valutate e discusse, ma che devono essere avanzate. Non possono essere i vescovi a farlo al posto di qualcun altro. Questo, almeno, è ciò che Francesco dal 2013 all’altro ieri ha continuamente ripetuto.
Dunque, nella Chiesa non solo italiana…
Non può essere il Papa a fare da lepre. Può scattare in avanti, e Francesco lo ha fatto anche troppo, ma poi deve stare al centro. Il problema è che ci sono poche lepri, anzi, si tende a fare i cacciatori.
Papa Francesco ha parlato spesso della necessità di una Chiesa più attenta alle persone che alle regole. Cosa ne pensa?
Questa è una preoccupazione che papa Francesco ha potuto ripetere con l’autorevolezza che gli veniva da una storia che non è quella europea, ma che nella Chiesa fa parte della tradizione: il diritto canonico privilegia la persona sulla regola: sta scritto da più di cento anni.
Allora qual è il problema?
Il problema è che la macchina amministrativa e burocratica della Chiesa moderna, quella tridentina, si è impadronita della mediazione con le persone, configurandola in modo clericale. Non era così nella Chiesa antica e medievale. È un elemento che Francesco fin dall’inizio del pontificato ha sentito come una spina nel fianco.
Non è questa la sua critica all’autoreferenzialità della Chiesa?
Sì. Superare l’autoreferenzialità è una parola d’ordine di Francesco, ma in realtà viene dal Vaticano II.
Ed è un tema più ampio della critica alla centralità della Curia romana.
Sicuramente. La Curia romana ci mette del suo, ma al pari di tutte le curie e di tutte le strutture parrocchiali in giro per il mondo. Che tendono a vivere ancora l’identità cattolica in una forma che potremmo dire troppo moderna e insieme antimoderna.
Cosa significa?
Moderna in quanto espressione della Riforma tridentina, antimoderna perché tale assetto non tiene conto che la nostra vita non è più quella del Seicento. Nella Curia romana e nelle diverse curie locali l’impostazione ricalca il Dicastero per la dottrina fede e quello per il culto e la disciplina dei sacramenti. Dottrina e disciplina, così divise, sono secondo una impostazione moderna che non risponde più ai problemi e alle sfide attuali.
Stiamo facendo un discorso più progressista o più conservatore?
Stiamo parlando di un’altra logica, spesso estranea ai progressisti e ai conservatori, che, senza volerlo, si trovano a condividere un terreno sbagliato. I conservatori usano categorie del Concilio di Trento, che risultano, paradossalmente, troppo moderne. Le categorie antiche – patristiche e poi medievali – rispettavano di più le istanze e le situazioni della persona. Le categorie moderne, invece, sono ormai un boomerang, cioè ci si rivoltano contro.
Riassumendo?
L’idea di Francesco di far prevalere la persona sulla regola non è un modo di annacquare la dottrina, ma di rileggerla in modo intelligente.
Due domande conclusive. In che modo lo stile di Bergoglio condizionerà i successori?
Impossibile dire se lo stile-Bergoglio sia una soglia di non ritorno in senso assoluto, perché alcune caratteristiche sono legate strettamente alla sua personalità. Certamente con lui la tradizione ha ricominciato a parlare un linguaggio meno formale. Il Concilio ha fatto presentire al popolo di Dio che un papa pienamente “conciliare” avrebbe potuto esserci ed era Bergoglio; divenuto realtà, lo stile-Bergoglio diventa parte della tradizione. Ovviamente condizionerà i suoi successori, non perché debbano imitarlo, ma perché sanno che quello è un modo di fare il papa pienamente “legittimo”.
Infine, l’imminente conclave. La maggior parte dei cardinali elettori rispecchiano l’orientamento di Francesco. Questo elemento quali considerazioni le suggerisce?
I giochi politici sono già cominciati prima della morte del Papa e tengono conto di una serie di variabili che non sono del tutto ponderabili. Francesco ha fatto molte cose in modo non lineare, ma una cosa lineare l’ha fatta: ha costruito un collegio segnato dalla visione di Chiesa non autoreferenziale propria del Concilio. Credo di conseguenza che sia ragionevole ipotizzare come molto più probabile la continuità della discontinuità. Le scelte possibili possono essere varie, andando dalla piena e convinta continuità a una continuità con elementi di moderazione: ma escluderei ogni retromarcia.
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.