“Non sono pentito di quanto ho detto. Il virus è clinicamente scomparso”. Lo ha ribadito Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, all’indomani delle polemiche scatenatesi sulla sua affermazione. Alla base delle sue parole, uno studio coordinato da Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dello stesso ospedale e condotto su 200 pazienti da marzo a maggio, da cui emerge che il virus Sars-Cov-2 si replica molto meno rapidamente: la carica virale a maggio è 10 volte inferiore che a marzo. Ma davvero il Covid-19 si è depotenziato? “I clinici osservano che sembra esserci un virus meno aggressivo – risponde il professor Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia –. È una tesi suggestiva, ma non basta l’osservazione clinica, ci vuole un dato scientifico ben strutturato e pubblicato e soprattutto un dato virologico, che al momento non c’è, sul fatto che il virus ha perso aggressività perché è mutato. In secondo luogo, il contagio sta calando, è sotto gli occhi di tutti: diminuiscono i casi positivi, scende l’indice di riproduzione virale o di contagiosità del virus che è sotto 1 in tutta Italia, cala la percentuale dei tamponi positivi. Non essendo questo virus diverso da tutti gli altri, siamo alle prese con un’epidemia che è destinata a spegnersi. È il trend naturale dell’evoluzione di un’infezione virale”.
Ha ragione, dunque, il professor Zangrillo quando dice che il coronavirus è “clinicamente inesistente”?
Per dirlo bisogna averne le prove. Certo, i clinici vedono meno casi gravi e il contagio sta diminuendo in tutta Italia, con l’indice Rt che è sotto 1 ovunque. Ma in assenza di un dato virologico preciso che dimostri che circola un coronavirus con caratteristiche genotipiche, cioè geneticamente diverso da quello dell’esordio, e fenotipiche, cioè con comportamenti diversi, si può solo dire che è un interessante dato clinico osservazionale, valido per tutti i virus, che però ancora non fa scienza.
Perché?
Fa scienza quello che viene pubblicato e io non ho visto nessuna pubblicazione che dimostri che il virus è mutato e abbia perso la capacità di infettare le cellule.
Perché allora il Covid-19 sembra meno aggressivo?
Oggi sappiamo quali antivirali funzionano e quali no e sappiamo che si può trattare il virus con farmaci che agiscono non tanto direttamente sul Covid, quanto contro i meccanismi patogenetici, in particolare l’infiammazione e la coagulazione che aggravavano la situazione dei pazienti, portandoli anche alla morte.
Ma il quadro è cambiato, non crede?
Se avessimo monitorato il virus dell’influenza, che ha una sua stagionalità come questo virus, e avessimo misurato in primavera qualche raro caso, avremmo riscontrato che il virus sembrava attenuato clinicamente.
Pesano i fattori climatici?
Sappiamo che in primavera e in estate questi virus si diffondono molto meno.
Sono meno aggressivi?
Non è detto. Con i cambiamenti atmosferici migliora la risposta immunitaria, specie quella mucosale, e il virus ha minore capacità infettante, perché trova ostacoli nell’ambiente esterno e perché in estate non ci sono le condizioni climatiche per cui si può verificare la trasmissione per aerosol. Ci vogliono una certa temperatura e una certa umidità perché la gocciolina si condensi e poi si polverizzi.
Si può dire che il rischio epidemico è più basso?
Una pandemia ha sempre una curva ascendente e una discendente, si spegne naturalmente per due ragioni: perché esaurisce le persone che possono essere infettate e perché lo stesso virus incontra sempre più difficoltà a trasmettersi. Ricordiamoci che il Covid è un virus respiratorio e che non è diverso dagli altri.
Quindi?
Si comporta e si diffonde come tutti i virus respiratori, ha una stagionalità e non ha nulla di sorprendente se adesso si trasmette di meno, dopo tre mesi.
È il trend che ha avuto in Cina?
In Cina la curva epidemica ha registrato una progressione prima esponenziale, poi lineare. Una volta raggiunto il suo apice, è scesa “a campana”, cioè con una curva simile a quella ascendente.
E in Italia?
Da noi ha fatto registrare un’ascesa esponenziale e poi lineare, cui ha fatto seguito una discesa molto più lenta, perché non abbiamo applicato condizioni di lockdown strettissime. Ma qualsiasi epidemia finisce. Su questo coronavirus abbiamo creato una comunicazione esagerata. Come se descrivessimo per la prima volta un’epidemia, cose che la virologia conosce da sempre.
È stato fatto dell’allarmismo eccessivo?
Ne abbiamo fatto una narrazione improntata a una certa isteria, alimentata anche dai media. Vorrei quindi lanciare un appello ai mezzi di comunicazione: abbiamo esagerato con questo virus, lo abbiamo spettacolarizzato, senza trattarlo come avremmo dovuto, in maniera scientificamente più asettica, più distaccata.
Le pandemie sono destinate a finire, si diceva. Secondo il professor Zangrillo, riusciremo a liberarci di questo incubo in un mese. Secondo lei?
Non vorrei cimentarmi in questa ars divinatoria, che in questa isteria comunicativa montante diventa un auspicio, dopo tre mesi di quarantena, di incubo, di martellamento quotidiano. Anche tante previsioni matematiche ed epidemiologiche fatte in questi mesi sono state smentite. Basta guardare i dati per capire che l’epidemia si sta estinguendo.
Il 3 giugno è prevista la vera ripartenza in tutta Italia. Come va affrontata per evitare un’eventuale risalita dell’indice di contagio?
Se l’Rt diventa zero, l’epidemia si può dire spenta e solo a quel punto saremmo certi di non correre più rischi. Ma siamo sicuri che questo azzeramento non avverrà subito, quindi bisogna continuare a mantenere alta la guardia, ad avere le maggiori cautele là dove il virus circola ancora, soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria, provincia di Trento ed Emilia-Romagna.
E al Centro-Sud?
Il virus si è diffuso molto meno e sono Regioni che hanno beneficiato dell’assennata decisione di estendere il lockdown a tutto il paese.
Ma non possono accendersi nuovi focolai?
È possibile, ma allora la responsabilità di circoscriverlo va lasciata alle Regioni, a chi cioè può intervenire in loco, monitorando e bloccando ogni accenno di infezione, predisponendo una mappa dettagliata dei casi al fine di poterli subito isolare.
Si parla molto di patente di immunità. È utile?
Da virologo mi sento umiliato, perché la virologia è stata ridotta all’uso del tampone. Invece tutti gli studi che sto leggendo – dalla Cina, dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Germania… – riguardano lavori importantissimi: nuovi farmaci, nuovi vaccini, come il virus replica, struttura del virus… Tutti temi che servono a far avanzare la ricerca, la conoscenza. Da noi non è uscito quasi niente. Ripeto: ci siamo ridotti a ragionare sui tamponi.
Dove sta il problema?
Il tampone è un approccio diagnostico come tanti e con tutti i suoi limiti. Per motivi biologici e virologi la patente di immunità ha poco senso.
I virologi sono divisi: arriverà o no una seconda ondata?
L’unica previsione che si può fare è per analogia. Dalla fine dell’Ottocento i virus pandemici si diffondevano in primavera, si spegnevano in estate e si ripresentavano in inverno. A novembre-dicembre può darsi che il Covid-19 possa ritornare, ma se ritorna sarà in forma meno virulenta, perché come tutti i virus zoonotici anche il Covid-19 tende ad adeguarsi e a convivere con il nuovo ospite.
(Marco Biscella)