Che la legge elettorale vada cambiata lo sanno tutti. Il ping-pong dei collegi che il Rosatellum produce è una pura follia. Chi si candida è eletto spesso “a sua insaputa”, come capitato a molti deputati e sanatori che sanno bene che mai avrebbero avuto l’elezione se non per una buona dose di fortuna che li ha premiati.
Nessuno infatti sa mai se risulta eletto anche se ha preso più voti degli altri. A questa stortura si aggiunga il fatto che ballano alla Giunta per le Elezioni in diversi collegi (di maggioranza e opposizione) per qualche voto, a volte meno di dieci, con conseguenze folli sulla certezza del diritto inaccettabili.
Su questa sponda la Meloni, stimolata da Renzi, si è detta disponibile a rivedere al legge elettorale dicendosi anche favorevole alle preferenze. E qui la cosa si fa seria. La maggior parte dei gruppi dirigenti del nuovo Pd, Elly esclusa vista la notorietà e pochi altri, farebbe fatica a farsi leggere anche nel comune di residenza visto che ormai sui territori sono in pochi a lavorare. Anzi, vi è un’ampia schiera di dirigenti che vogliono far fuori proprio i cacicchi locali dalle scelte nazionali e commissariali, se serve, anche sulle cose che contano.
Sia di esempio il caso De Luca, ma si guardi anche alle scelte in Liguria con Orlando e a quello che accadrà in Puglia. La forza dei dirigenti nazionali è il possesso del simbolo e la chiusura delle liste che portano all’elezione certa di chi prende ottimi collegi spesso catapultato senza meriti specifici su di un territorio. E così si crea una squadra di deputati e senatori che hanno poco o nulla a che vedere con il consenso personale e diretto.
Reinserire le preferenze vorrebbe dire spezzare questo paradigma e tornare a una forma di partito ante-1992. Come ha ammesso D’Alema, la strategia sua e dei suoi compagni dell’epoca di chiudere con il partito apparato ha generato un mostro senza anima che non ha più rapporti con la “base”. Un partito che non si preoccupa di fare il porta a porta, anche virtuale, e vive di folate senza struttura.
Ma siamo certi, ci si chiede, che non ci si ritrova in Parlamento una schiera di influencer candidati un po’ ovunque che ben sanno oggi muovere le persone sui social? Detta male, si rischia che, andandosi a contare, un ragazzino i che fa i balletti prenda più voti del Segretario di partito.
Il rischio c’è, ma forse è arrivato il momento di correrlo se vogliamo far cresce la democrazia, dicono alcuni anche a sinistra. Altri vedono le preferenze come la fine del Pd come lo conosciamo nell’ultimo biennio. Dovendo prender voti sarebbe necessario candidare uomini e donne di territorio con il rischio di tenere fuori chi oggi è in segreteria.
Nell’attuale visione il partito agisce gramscianamente come una élite di cooptati che governa le sorti delle sinistra e agisce per convincere il popolo a votarla. Chiedere il voto a uno a uno, contarli, e misurarsi con le persone vere (anche sui social) potrebbe essere una sfida troppo grande. E che nessuno oggi a sinistra fosse vuole davvero correre.
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