Non bisogna prendere troppo sul serio la ritrovata unità del Partito democratico sul tema del riarmo europeo: la mozione unitaria presentata alla vigilia della prossima partecipazione della Meloni al Consiglio europeo è infatti un meraviglioso capolavoro di cultura democristiana. Il che vuol dire che per servire allo scopo della sinistra più estrema si è dovuti ricorrere agli espedienti linguistici dorotei.
Forse è questo l’elemento di maggiore novità, il linguaggio e le espressioni meno nette per tenere assieme, almeno formalmente, le anime lontane e distinte che oggi abitano il Pd. Sarà una lunga marcia nel deserto quella che attende i progressisti italiani. La scelta è tra rinnegare il pacifismo delle frange più estreme della sinistra e più vicine alle posizioni di Putin, oppure spingere per un socialismo moderno che vede la difesa, anche militare, come un elemento fondante.
Questa spaccatura reale è profonda e sta dilaniando anche il gruppo dirigente che sta intorno a Elly Schlein, antiche amicizie vengono messe in discussione, nuove alleanze si costruiscono sulla base di una visione distinta del mondo. Nessuno vuole ammettere che esista questa distinzione e così ci si affida all’antico strumento della mozione unitaria, in cui l’unica cosa che conta è che non ci sia una mozione avversa.
Che poi non dica nulla di concreto e che anzi si contraddica in più punti è quasi un corollario al teorema. A leggerla si capisce bene che è impossibile attuarla. Si chiede di fare una difesa comune ma senza fare ricorso alle armi, si chiede di costruire questa difesa comune senza però rinunciare a un incremento della spesa sociale, si chiede di costruire un’Europa unita senza avere una visione chiara di quale sia l’obiettivo vero dell’Europa che si va a formare.
È giusto che esultino i gruppi dirigenti per avere imparato una lezione che la politica da secoli insegna, ovvero che il compromesso è un elemento necessario se si vuole sopravvivere. In questo sicuramente ha contato molto l’esperienza delle pellicce grigie del Pd, che hanno tirato fuori gli antichi arnesi della mediazione, gioiscono per la ritrovata unità e sono felici per quello che, per ora, è stato scongiurato, ma questa emozione assomiglia molto a una tregua fragile come quella in Palestina, e tutti sono pronti a riprendere le armi non appena il quadro sarà più chiaro.
Inoltre, è evidente che l’irrilevanza nel nostro Paese sullo scenario europeo, con le sue ambiguità nel rapporto con gli Stati Uniti di Trump e la vocazione europeista sbandierata ma mai praticata, aiuta il Pd a tenere questa posizione ibrida. Alla fine le decisioni verranno prese a prescindere da quello che decideranno i democratici italiani e sarà quindi più semplice accettare lo stato di fatto piuttosto che apparirne come promotori.
Quel che conta per davvero, per questo gruppo dirigente, in questo momento, è chiudere il ciclo elettorale con le elezioni regionali delle cinque regioni più importanti per il Pd, senza spaccature sulla politica estera, che non sarebbero semplici da digerire. Ma lo strappo esiste nel profondo, come una crepa in un albero antico e non si sa se una passata di Vinavil e qualche foglio di carta riusciranno a coprirla, ricompattando quel che resta di un Ulivo sempre più spaccato e con le radici a secco.
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