L’attacco Usa all’Iran ha messo in stand-by la competizione con Pechino. Offrendo alla Cina un’opportunità che Xi non intende perdere
L’attacco statunitense ai tre principali siti nucleari iraniani segnano un salto di qualità nella destrutturazione dell’ordine internazionale e impongono alla Cina una ridefinizione della propria postura strategica, volta a non “perdere la faccia” (mianzi) davanti ai partner strategici, pur operando in un teatro secondario rispetto all’Indo-Pacifico.
Fin qui, la dottrina statunitense aveva privilegiato la competizione con Pechino, seguendo il principio “Asia prioritizers” promosso da figure come il sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby e il vicepresidente Vance, relegando il Medio Oriente a una dimensione marginale.
Ma l’intervento americano in Iran ha destabilizzato questa logica, marginalizzando il ruolo dei moderati nell’amministrazione Usa e distraendo Washington dal Pacifico. Un’opportunità che Pechino non può ignorare.
Le relazioni tra Cina e Iran vantano radici secolari ed iniziano con l’impero dei Parti e quello Sasanide, si rafforzano durante la guerra Iran-Iraq del 1979, quando Pechino fornì armamenti a Teheran, e si consolidano ulteriormente nel 2016 con il “Partenariato Strategico Globale”. Nel marzo 2021 i due Paesi hanno siglato un accordo venticinquennale per intensificare la cooperazione nei settori energetico, commerciale e militare.
Una recente analisi del Wall Street Journal rivela che più del 90% delle esportazioni petrolifere iraniane è destinato alla Cina, testimoniando la profonda dipendenza di Teheran da Pechino per valorizzare il suo greggio scontato. Questi flussi energetici coprono circa il 15% del consumo cinese.
Il rischio di un’escalation nello Stretto di Hormuz, arteria critica delle forniture petrolifere, esige da Pechino una risposta non più remissiva, ma strategica. La ripetizione di un copione diplomatico ambiguo rischia di erodere la credibilità della Cina come fulcro di un’alleanza revisionista che sfida l’ordine guidato dagli Stati Uniti.
Detto altrimenti, l’ambiguità della politica estera cinese che ha portato prima a una “neutralità pro-russa” e poi ad una “neutralità pro-palestinese” non può caratterizzare per sempre l’atteggiamento di una potenza che intende proporsi come soggetto in grado di stabilizzare l’ordine delle relazioni internazionali in contrapposizione all’approccio erratico dell’amministrazione Trump.
Anche per questo motivo, la minaccia di chiusura dello Stretto di Hormuz fatta dalla Repubblica Islamica costituisce per Pechino una indiretta richiesta d’intervento, una sorta di richiamo alla responsabilità. Benché al momento sia altamente improbabile che la Cina diventi un soggetto attivo nell’escalation globale, non può esimersi dall’attuare un intervento più assertivo nell’area.
Parliamo di una situazione altamente instabile in cui il pendolo delle probabilità oscilla velocemente fra un rilancio in grande stile dell’attività diplomatica e un sostegno allo sforzo bellico iraniano. Prima o poi, l’aumento dell’instabilità sistemica imporrà alla Cina di scogliere ogni ambiguità, come conferma la recente dichiarazione circa lo stato di salute del diritto internazionale la cui crisi irreversibile potrebbe legittimare un intervento diretto cinese.
In uno scenario che impone decisioni risolutive e con l’amministrazione Trump che rischia di impantanarsi in Medio oriente, la Cina ha l’opportunità, forse irripetibile, di rafforzare la propria posizione verso Taiwan. Pechino potrebbe intensificare la propria attività nei confronti di quella che chiama “l’isola ribelle”.
La dimensioni epocale dei recenti eventi dimostra che la vera posta in gioco per la Cina non è solo la credibilità globale, ma la capacità di trasformare una crisi in opportunità per affermare le proprie aspirazioni egemoniche, bilanciando diplomazia assertiva, interessi energetici e la determinazione a chiudere a proprio vantaggio la partita taiwanese.
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