Quali sono i primi sintomi dell’Alzheimer? A cosa bisognare fare attenzione? Vuoti di memoria e amnesie sono campanelli d’allarme grave.
Definita dai ricercatori “la malattia del secolo”, sono ancora tanti gli aspetti poco conosciuti dell’Alzheimer. Secondo un rapporto diffuso ad inizio anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi sarebbero circa 50 milioni i casi documentati della malattia ma, nel 2050, si passerà a circa 152 milioni di persone. Secondo gli stessi dati, attualmente, il rischio di sviluppare la malattia dopo i 55 anni è del 42%, mentre dopo i 75 anni è del 50%.
Ma perché i casi della malattia potrebbero triplicare nei prossimi decenni? Secondo l’OMS, una chiave di lettura fondamentale dei dati risiede nell’invecchiamento della popolazione mondiale. Inoltre, le persone che si trovano in condizioni socio-economiche svantaggiate – che aumenteranno nei prossimi anni – hanno un rischio maggiore di sviluppare la malattia. Questo perché la stessa fascia di popolazione avrà molti più problemi ad affrontare da un punto di vista economico, di prevenzione e cura, malattie e disturbi comuni – come l’ipertensione, problemi cardiovascolari, perdita dell’udito – ma anche l’isolamento sociale, che caratterizzano il rischio di declino cognitivo.
I primi sintomi dell’Alzheimer: il nuovo studio
La Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze e l’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi, ha pubblicato un nuovo studio – dal titolo Digital Twins and Non-Invasive Recordings Enable Early Diagnosis of Alzheimer’s Disease – sui sintomi precoci, e come riconoscerli, della malattia, rivelando anche nuove tecniche diagnostiche che potranno supportare i medici. La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Alzheimer’s Research & Therapy, ha messo in luce i primi segni rivelatori dell’Alzheimer e dell’importanza di un intervento tempestivo per rallentare il declino cognitivo.
Il Professore Alberto Mazzoni – associato di Bioingegneria presso l’Istituto di Biorobotica della Scuola Sant’Anna – coordinatore della ricerca, ha spiegato: “Non solo saremo in grado in grado di fornire una previsione sempre più affidabile del rischio di sviluppare l’Alzheimer in persone che non hanno ancora evidenti sintomi clinici, ma siamo riusciti a farlo con un metodo completamente nuovo, potenzialmente molto più semplice da utilizzare per ospedali e pazienti rispetto ai metodi attualmente in uso”.
Valentina Bessi, Professoressa associata di Neurologia presso l’Università di Firenze e responsabile del Centro per i disturbi cognitivi e le demenze dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze, ha aggiunto: “La tecnologia è promettente. Identificare l’Alzheimer quando i segni clinici sono ancora lievi, ma sono già presenti alterazioni biologiche, è oggi considerato fondamentale. La diagnosi precoce sta aprendo nuove possibilità di intervento, consentendo l’accesso a trattamenti innovativi che potrebbero rallentare la progressione della malattia e migliorare la qualità della vita”.

Lo studio ha coinvolto 124 persone, di cui 86 con lievi disturbi cognitivi solo soggettivi: questo studio ha permesso di predire l’88% dei casi l’esito dell’esame del liquido cerebro-spinale, basandosi solo sull’elettroencefalogramma. Oggi, l’unico metodo per capire se i vuoti di memoria siano primi segnali della malattia è l’esame della PET cerebrale o l’esame del liquido cerebro-spinale.
Lorenzo Gaetano Amato, studente del corso PhD in Biorobotica della Scuola Sant’Anna e autore principale della ricerca ha spiegato: “Abbiamo utilizzato un modello matematico che descrive il cambiamento dell’attività del cervello al progredire dell’Alzheimer per investigare i segnali che annunciano l’inizio della malattia. Il passo successivo è stato quello di analizzare l’attività cerebrale di oltre cento anziani con lievi problemi di memoria tramite una semplice registrazione dell’elettroencefalogramma. Combinando queste analisi, per ognuno di loro è stato sviluppata una versione personalizzata del modello del cervello che ci ha consentito di capire quali di loro fossero a rischio di sviluppare l’Alzheimer”.