Una delle questioni tenute abilmente ai margini del dibattito politico, ma centrale per la sua importanza, è quello delle spese europee della difesa.
Una scelta politica, quella compiuta da Bruxelles sul riarmo, su cui molti cittadini sono contrari, timorosi, con i governi che “vorrebbero ma non possono” e che in fondo sperano che una pace in Ucraina depotenzi la questione, salvo averla sottovalutata per tre anni e mezzo.
Adesso – complici anche le posizioni di Trump – i nodi vengono al pettine e la questione su come affrontare (e coprire) un aumento delle spese militari è in cima all’agenda. Una richiesta, quella della Commissione europea, che – vista dai governi dei singoli Stati – va opportunamente stemperata per non allarmare troppo l’opinione pubblica.
Non si tratta assolutamente di essere “filo-Putin” e di minimizzare la situazione, né che sia opportuno esasperarla per correre alle armi, ma è certo che il conflitto in Ucraina ha fatto emergere una situazione critica, impensabile fino a qualche anno fa e proprio nel momento in cui gli USA minacciano di tirarsi indietro rispetto agli impegni del passato, mentre già l’Europa spende molto, ma spende male.
In una situazione in cui è sempre più difficile distinguere tra verità e propaganda e forse anche perché quotidianamente si sottolinea il pericolo di una aggressione della Russia, la NATO ha ritrovato una sua ragion d’essere e chiede ora investimenti colossali per un continente che avrebbe molte altre priorità.
È un cortocircuito di paure in cui chi si (ri)arma lo fa perché si arma l’avversario, in una spirale infinita.
Di questi giorni sono le dichiarazioni del segretario generale della NATO Mark Rutte che, facendosi portavoce dei timori delle nazioni settentrionali d’Europa, auspica addirittura che l’UE arrivi a spendere il 5% del PIL in armamenti, ovvero più del doppio di oggi.
Eppure siamo in un continente che già oggi “spende a debito” per coprire spese essenziali, sforando (o superando) i deficit programmati; una Unione che in argomento si ritrova divisa, anche se obiettivamente guidata dai “falchi” i quali tuttavia, se esagerano, rischiano di perdere l’appoggio dell’opinione pubblica.
È interessante notare come i banchieri siano però molto cauti su questa linea di riarmo.
Lo è stato Fabio Panetta, governatore di Bankitalia, nelle sue recenti “Considerazioni finali”, e lo è anche Carlo Messina, consigliere delegato e Ceo di Intesa Sanpaolo, di fatto al massimo livello bancario italiano, in una intervista uscita ieri su La Stampa.
Messina ha infatti sottolineato come le priorità dovrebbero essere gli sforzi per il lavoro, i giovani, i salari bassi pur in presenza di tutti i problemi creati da Trump, dai dazi, dalla guerra in Ucraina e con le conseguenze dei rapporti con russi e cinesi.
Ma mentre la guerra alla povertà dovrebbe essere il tema centrale, si rischia “di avere come tema principale il dibattito pubblico sull’incremento degli investimenti nella Difesa”.
Eppure, secondo Messina, se “come Europa dobbiamo porci il tema di un sistema di difesa integrato da rafforzare, nello stesso tempo l’Europa deve darsi un grande piano di investimenti comuni nel campo della tecnologia, dell’energia, delle infrastrutture. Solo così potrà assicurarsi un ruolo nelle sfide del mondo globale”.
Ammettendo poi che l’Italia sembra ora ben diretta in chiave di equilibrio economico – tanto che potrebbe mettere da parte un “tesoretto” di circa 4 miliardi – Messina è molto cauto sul destinarlo alla difesa.
Per Messina “se davvero i conti pubblici dovessero presentarsi meglio del previsto, ci si dovrebbe concentrare su crescita, occupazione, riduzione delle disuguaglianze. In Italia ci sono sei milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. E dieci milioni di persone che non possono permettersi di affrontare un imprevisto in famiglia da 500 euro. Penso che dovremmo ripartire da qui”.
D’altronde – ha continuato Messina – “in Italia abbiamo anche industrie militari e tecnologiche di livello assoluto, a cominciare da Leonardo e Fincantieri. Se gli investimenti venissero fatti in ricerca, intelligenza artificiale, sistemi difensivi adeguati ai tempi, è un conto. Se invece vogliamo solo riconvertire vecchie fabbriche per costruire armi convenzionali, allora siamo fuori strada”.
Prudenza, insomma, ma questi temi trovano difficoltà ad emergere anche perché queste riflessioni aprono la strada al nocciolo del problema: dove produrre, come spendere, chi comanda o comanderà la “difesa europea”.
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