Nello scorso agosto Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, durante il Meeting di Rimini propose una “costituente” per affrontare le difficoltà dell’Italia, finanziarie, economiche, sociali, di organizzazione dello Stato.
Con la caduta del governo il Paese rischiava le elezioni anticipate, l’aumento dell’Iva, l’instabilità interna e l’assalto dei mercati. Nell’ipotesi, davanti agli obblighi del sistema dell’euro il nuovo Parlamento avrebbe dovuto esaminare di corsa la legge di Bilancio per il 2020, con tutti i dubbi sulla composizione, la tenuta e l’affidabilità della maggioranza espressa dal voto nazionale. Più di recente, il leghista Giancarlo Giorgetti ha avvertito: “Scusate, ma sediamoci a un tavolo per cambiare le regole del gioco e per dare un governo decente a questo Paese”.
Nelle ultime due legislature l’Italia ha avuto 5 governi, fatto ancora trascurato in favore della ricomposizione degli equilibri a sostegno dell’esecutivo. La legge elettorale in vigore, conseguente alla sentenza della Consulta sul “Porcellum”, non ha risolto il problema della governabilità. Perciò abbiamo visto e vissuto alleanze politiche estemporanee quanto innaturali, i giallo-verdi e i giallo-rossi. In precedenza, tra gesti di stizza e ripulse nei rispettivi elettorati, si era consumato il patto tra Pd e Forza Italia, cioè gli anti-berlusconiani e i berlusconiani.
Oggi il Movimento 5 Stelle, che alle politiche del 2018 aveva ricavato un consenso straordinario dall’incessante battaglia culturale contro i partiti, è costretto a fare i conti con gli effetti indesiderati delle proprie regole, della propria dottrina e dei suoi fondamenti: la consultazione degli iscritti sulle scelte politiche di rilievo e l’idea che chiunque, a prescindere dalla formazione e dall’esperienza politica, possa esercitare un mandato elettivo.
La lotta dei Cinquestelle alla partitocrazia, passi la semplificazione, ha funzionato fino a un certo punto. Di fatto, è valsa a sostituire una vecchia classe dirigente invisa in blocco a causa di scandali di palazzo e generalizzazioni mediatiche da Tangentopoli in avanti. Ne è seguito un abbassamento dell’età anagrafica degli attori della scena politica, già iniziato con Matteo Renzi, ma non preceduto dalla selezione di personalità capaci di cogliere lo spirito dei tempi, di comprendere le evoluzioni antropologiche e sociali dell’era digitale e dunque di progettare il futuro dell’Italia, considerandola come centro del Mediterraneo, porta dell’Europa, sede di antichi borghi e tradizioni variegate, nazione dall’anima industriale e turistica con patrimoni eccezionali, geografia eterogenea, genialità compresse e due estremi sempre più lontani: il Nord e il Sud.
L’ossessiva sfida (di linguaggio) tra “casta” e “anti-casta”, anti-populisti e populisti, non ha permesso di capire sino in fondo le trasformazioni in atto nella politica nostrana. I partiti sono smarriti, sia per i vincoli di bilancio della Repubblica, sia per la loro crisi di identità e democrazia interna, sia per il leaderismo spinto con cui suppliscono alla loro incapacità di rappresentanza e di discorso realmente politico.
La strada del civismo, per la verità già sperimentata e ora battuta come principale, significa che i simboli dei partiti non emozionano più, non attraggono e anzi spaventano.
Di là dalle possibili alchimie elettorali c’è un dato incontestabile: chi vota guarda ormai alle persone, alle loro storie e facce più che alle bandiere di riferimento. A Lamezia Terme (Catanzaro) – Comune sciolto per tre volte a causa di infiltrazioni di ’ndrangheta – ciò aveva portato le forze politiche locali a formare una costituente con l’obiettivo di superare gli steccati dei partiti e ragionare in concreto su programmi e progetti di sviluppo. Questo confronto fallì dopo mesi di discussione avanzata. Prevalsero le resistenze identitarie, i timori dei partiti e le imposizioni di vertice.
La Calabria, terra di avanguardie politiche piuttosto ignote – in cui per esempio il compromesso storico tra Dc e Pci si raggiunse con netto anticipo –, tornerà al voto regionale il prossimo 26 gennaio.
Il Pd ha scaricato il governatore uscente Mario Oliverio – tra l’altro già consigliere e assessore regionale, deputato e presidente della Provincia di Cosenza – candidando l’imprenditore Filippo Callipo, che nel 2010 si era già presentato con la propria lista civica “Io resto in Calabria” e l’appoggio di un pezzo del centrosinistra.
Il Movimento 5 Stelle ha lanciato in pista il docente universitario Francesco Aiello, che proviene dalla società civile, e punta ad affiancargli una lista civica con professionisti e figure dell’impegno sociale.
Il centrodestra, invece, sembra impantanato sulle ragioni di partito: malgrado il “no” di Matteo Salvini alla candidatura a governatore del sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, da Forza Italia si vorrebbe investire di questo ruolo suo fratello Roberto, parlamentare, e come alternativa si starebbe pensando a Sergio Abramo, primo cittadino di Catanzaro e presidente della locale Provincia. La “carta” del candidato civico, pare individuato nel magistrato Caterina Chiaravalloti, suscita perplessità interne: nel centrodestra sembrerebbe una resa alle odierne aspettative e dinamiche elettorali, per quanto si tratterebbe di un profilo di superamento definitivo di ogni divergenza.
Alle prossime regionali la Calabria si giocherà il proprio avvenire. Davanti alla “questione calabrese” le consulterie “romane” dei partiti restano immobili. La Regione continua a spopolarsi, la ’ndrangheta controlla il territorio e la burocrazia è la stessa da oltre 30 anni. La Regione ha un bilancio interamente da rivedere, enti strumentali in forte perdita, due aziende del Servizio sanitario – con un pesantissimo quanto ignorato debito complessivo – su 9 commissariate per infiltrazioni. Inoltre il relativo disavanzo cresce a dismisura, malgrado rimesso da quasi 10 anni alla gestione del governo nazionale.
Se il Sud non cresce, l’Italia non può guarire. Se la Calabria muore, perisce l’intero Paese.