ELEZIONI USA/ Quel “pari merito” di Biden e Trump: la democrazia (vera) non si ferma

- Nicola Berti

Nonostante il picco di contagi da Covid, negli Stati Uniti nessuno ha messo in discussione le elezioni presidenziali. Una lezione per la sofferente democrazia italiana

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Neppure una pandemia può essere motivo di forza maggiore per sospendere la democrazia o rassegnarsi al suo decadimento. Anzi: è proprio di fronte a una crisi senza precedenti che un Paese democratico deve cercare risorse d’emergenza nei fondamenti della propria civiltà politica. Se necessario ritirando la fiducia a chi ha dato pessima prova nella tutela della salute pubblica. Oppure anche viceversa: promuovendo, nel caso, il bilancio complessivo di un quadriennio alla Casa Bianca, anzitutto sul piano economico e geopolitico. La democrazia elettorale cambia senza esitazioni i suoi governanti, oppure ridà loro “pieni poteri” costituzionali: ed è l’unica legittimata a farlo. E sarebbe un errore vedere in un match combattuto un segno di debolezza del sistema. È questa la lezione civile che il voto presidenziale americano – al di là dell’esito della contesa fra Joe Biden e Donald Trump – sembra indirizzare alla sofferente democrazia italiana, da mesi in lockdown per Covid. 

Che il Presidente degli Stati Uniti venga eletto ogni quattro anni “il martedì dopo il primo lunedì di novembre” è scolpito nella Costituzione dal 1845 e la regola del voto quadriennale è rispettata senza interruzione dal 1792. Nell’autunno 2020, la settimana precedente il voto ha visto il contagio Covid toccare negli Usa il suo picco assoluto: 575mila nuovi casi, con 5.800 morti. Ma lo svolgimento della consultazione non è stato messo in discussione né alla vigilia, né in precedenza, al di là di qualche schermaglia mediatica. Nessuno, Oltre Atlantico, si è mai azzardato a dire seriamente: “Con il Covid non si può votare”. In una democrazia vera si vota sempre: quando e come dice la legge, a maggior ragione se e quando la politica non riesce a governare.

Il voto per la Casa Bianca non era stato in discussione neppure nel 1944, quando milioni di americani in divisa stavano conducendo l’offensiva finale contro il nazismo in Europa e l’imperialismo giapponese in Asia. A Franklin Delano Roosevelt fu concesso di ricandidarsi per un quarto mandato, ma non di eludere l’appuntamento elettorale con la sovranità democratica. “FDR” era molto malato: morì pochi mesi dopo. Ma agli americani non importò: si fidavano di lui  per come aveva combattuto la Grande Depressione prima e la guerra mondiale poi. Si fidavano dei democrat, in quella fase storica al punto che quattro anni dopo – contro molte previsioni – rielessero Harry Truman, vicepresidente oscuro ma pur sempre votato con FDR nel 1944. L’avevano subito visto alla prova come Presidente nel chiudere la guerra calda e cominciare quella fredda; nell’impostare il dopoguerra economico negli Usa e nel “mondo libero”. Promosso sul campo: come poi Lyndon Johnson nel 1964, dopo l’assassinio di John Kennedy. Il Presidente del Civil Rights Act avrebbe potuto ripresentarsi nel 1968, ma non lo fece: sapeva per primo che l’escalation in Vietnam era stata un errore tragico, che gli americani non gli avrebbero perdonato. 

Questi ultimi elessero infatti il repubblicano Richard Nixon, anche se le piazze ribollivano di studenti e minoranze. Quattro anni dopo Nixon fu rieletto: si era conquistato la fiducia  degli States quel presidente un po “truce” ma capace di volato in Cina da Mao e di avviare il disgelo con l’Urss. Si mostrarono poi vere le denunce di spionaggio in campagna elettorale e Nixon a metà mandato fu obbligato a dimissioni disonorevoli. Al suo vice Gerald Ford, divenuto Presidente non andò meglio: fu travolto nel 1976 da Jimmy Carter. Che fallì il secondo mandato perché inadeguato di fronte all’inflazione e al primo ruggito dell’Iran neo-islamico. E così via: dal vecchio attore di Hollywood al quarantenne governatore dell’Arkansas, a Bush father and son, al primo presidente afro. A The Donald, ancora a lui oppure – al momento non si sa – a Joe Biden.

Tutti così diversi fra loro, tutti uguali perché investiti dal mandato popolare della più solida democrazia del pianeta. Di molte decine di milioni di elettori in coda da giorni, stavolta con la mascherina. Molti con in tasca solo il sussidio di disoccupazione. Ma il diritto al voto il primo martedì di novembre vale di più.   





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