ROMA-JUVENTUS 1-0/ I motivi di una sconfitta, da cui imparare e ripartire

- Charles Monti

CHARLES MONTI analizza tutti quelli che possono essere i motivi che hanno portato la Juve di Antonio Conte a uscire sconfitta dallo Stadio Olimpico di Roma sabato sera. Cos'è accaduto?

conte_2 Antonio Conte - Infophoto

Contro la Roma nel primo tempo era la testa degli juventini a essere rimasta a Glasgow; nel secondo tempo anche le gambe sono tornate là, negli spogliatoi del Celtic Park. Con questa doppia “amnesia”, ovvio che alla fine a spuntarla siano state le buone, in alcuni casi anche ottime (vedi Totti e Osvaldo), individualità della Roma. Alla fine, però, più che la sconfitta di misura a lasciare l’amaro in bocca è un’impressione, un sospetto, un indizio.

Facciamo un passo indietro, torniamo alla sfida con il Celtic. A una manciata di minuti dalla fine, con la Juve in vantaggio 0-3 fuori casa, Bonucci, per eccesso di confidenza, sbaglia un appoggio facile facile a un compagno: anziché offrire il pallone con un semplice tocco di piatto rasoterra, il difensore juventino si inventa una strana carambola-pallonetto che mette in difficoltà il compagno nel momento di controllare il pallone. Ultimata l’azione senza un nulla di fatto, le telecamere indugiano su Conte e con un replay che vale più di mille parole mostrano l’allenatore bianconero che, al momento della leggerezza di Bonucci, stringe la mano a mo’ di pugno, indirizza il gesto minaccioso a Bonucci accompagnandolo con un labiale secco e chiaro: “T’ammazzo” (sottinteso: non provare un’altra volta a fare un passaggio così scombiccherato, con il rischio di perdere il pallone e subire l’attacco avversario”).

In quei pochissimi secondi di riprese tv ci sta tutto il Conte che abbiamo conosciuto e apprezzato l’anno scorso: un allenatore “di campo”, ossessivamente teso a curare ogni dettaglio, ogni movimento, ogni tocco. Ma questo atteggiamento – tenere la squadra sulla corda per 90 minuti – Conte sembra in questo momento riservarlo solo alle partite di Champion’s.

Infatti a Roma, di quella grinta, di quella voglia di spaccare il mondo non s’è visto mai traccia, neppure come reazione al gran gol di Totti. In fondo, ad ammettere questa debolezza è stato lo stesso allenatore juventino a fine partita, quando ha candidamente ammesso di aver chiesto ai suoi giocatori se erano stanchi o se invece se la sentivano di giocare la partita. Più che con il senno di poi, è con gli occhi di tigre che certe sfumature si devono cogliere e basta: è chiaro che un giocatore vorrebbe essere in campo sempre, è chiaro che la sfida con la Roma non è una partita qualsiasi, ma è altrettanto chiaro che l’ultima parola sullo schieramento e sulla formazione spetta proprio all’allenatore.

Ecco allora l’impressione, il sospetto di cui dicevamo prima: la partita, in verità bruttina e miserella della Juve, ha lasciato l’immagine di una squadra a cui neppure il suo condottiero ha la forza di chiedere che ogni sfida sia giocata a livelli parossistici. Sembra quasi che l’anno scorso – esigendo sempre e comunque quella devastante concentrazione con cui partita dopo partita la Juve ha costruito la sua immagine coriacea e invincibile, polverizzando via via resistenze e certezze degli avversari – Conte sia andato un po’ al di là, abbia chiesto troppo alla squadra e oggi non se la senta di pretendere lo stesso atteggiamento, appunto, sempre e comunque.

Questo, del resto, è il destino degli allenatori che fanno giocare la propria squadra sul filo dell’impegno estremo, del tremendismo: Conte assomiglia molto a Mourinho, mentre dovrebbe ripescare dal suo bagaglio di esperienze anche le lezioni di Trapattoni e di Lippi, che sapevano vincere quelle partite in cui sapevano già in partenza che non si potevano spremere troppo giocatori già spremuti da impegni precedenti. Quelle squadre sapevano vincere anche tirando il fiato. Conte no. Ha sempre bisogno che la squadra giochi “di squadra”, come ha detto a fine partita: cioè, tutti devono dare e darsi il massimo, suonare lo spartito, che – guarda caso – è sempre un crescendo rossiniano. Il primo a sapere che l’alibi di giocare tre partite in sette giorni a febbraio sia appunto un alibi è lo stesso Conte, che momenti del genere nelle sue stagioni da calciatore juventino ne ha vissute tante.

Quindi, giusto archiviare questa partita, ma che serva da lezione, perché ha dimostrato quanto il primo vero obiettivo – inconscio ma ben impresso – della Juve 2012-2013 sia la Champion’s, sia fare più strada possibile (magari fino a Londra) in questo torneo.

Dopo la vittoria per 3-0 contro il Chelsea, la Juve giocò a San Siro contro un Milan dimesso (come la Roma del primo tempo) e ne uscì sconfitto sempre per 1-0, dando un’impressione di fiacchezza. La stessa cosa si è ripetuta dopo l’impresa di Glasgow. Anche questo dimostra – giustamente Conte lo ricorda spesso – come il processo di crescita per diventare una grande squadra non sia finito, anzi passi proprio dalla capacità di confermarsi – mentalmente più che atleticamente – dopo una partita impegnativa che ha tolto energie fisiche e nervose.

Dalle sconfitte si impara più che dalle vittorie. E allora la speranza è che il passaggio a vuoto all’Olimpico sia un punto di passaggio importante per un ulteriore salto di qualità di una squadra che è pur sempre in testa al campionato e imbattuta in Champion’s League.





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