LETTURE/ “Nessun uomo è un’isola”: da John Donne a san Benedetto, l’io da solo non basta

- Laura Cioni

Cosa vuol dire educare al dono di sé? Molti sono i modelli che ci vengono dalla tradizione, ma anche dal presente. Da Cicerone a Cristiana Piccardo, passando per san Bernardo

uomini_di_dioR400 Una scena del film Uomini di Dio

Nessun uomo è un’isola è il primo verso di una poesia di John Donne, ripresa da Hemingway come esergo al suo romanzo Per chi suona la campana e usato da Thomas Merton per il titolo della sua autobiografia. La Bibbia l’aveva già detto, motivando addirittura la decisione da parte di Dio di creare la donna: Non è bene che l’uomo sia solo; altrove il testo sacro indica il pericolo della cattiva solitudine: Guai all’uomo solo, perché se cade non ha chi lo sollevi.
Nel film Uomini di Dio uno degli aspetti più interessanti è la via del tutto personale con la quale ogni monaco giunge alla decisione di non abbandonare il monastero diventato pericoloso; il silenzio in cui quegli uomini maturano la loro scelta si scioglie nel momento in cui si comunicano a vicenda le ragioni che li spingono a restare e a continuare la vita comune lì, dove la loro vocazione li ha portati. Figli di una lunga tradizione monastica, quella cistercense, che a sua volta si innesta sull’antico tronco benedettino, questi uomini dimostrano in una situazione drammatica, che li porterà alla morte, la fecondità di una scuola secolare, incentrata sulla rieducazione dell’amore.
L’idea stessa della vita comune ha uno dei suoi fondamenti nella diffidenza che i maestri di spirito nutrono per una ricerca interiore troppo appartata, priva della relazione con gli uomini, in una solitudine che non corregge la tendenza di molti a concepirsi come monadi, ma anzi la circonda di una aureola. Gregorio Magno, formato alla scuola di san Benedetto, commenta il brano del Vangelo che racconta la prima missione dei discepoli di Gesù in questo modo: Il Signore manda i discepoli a due a due a predicare per indicarci tacitamente che non deve assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri. San Bernardo e gli altri esponenti della scuola cistercense non hanno fatto altro che sottolineare la centralità dell’amore come forza unificante e dinamica della vita spirituale, sia personale, sia comunitaria, cogliendo anche le istanze di una età che ha a lungo studiato su Cicerone la virtù dell’amicizia.

La fecondità di questa visione educativa è giunta attraverso i secoli fino a oggi, come documenta un libro di madre Cristiana Piccardo, Pedagogia viva, Citeaux novecento anni dopo. È la storia di una comunità trappista femminile, della sua evoluzione, delle sue fondazioni in tutto il mondo, del cammino di adeguamento compiuto di fronte alla diversità umana delle giovani che si sono via via presentate alla porta del monastero. L’autrice afferma che oggi  “non basta quella santa tensione verticale a Dio, sostenuta dalla grande preghiera liturgica e dalla generosa fedeltà all’austera osservanza, che ha caratterizzato le generazioni monastiche che ci hanno preceduto”. Occorre fare i conti con la caduta del modello stoico, basato sulla capacità di controllo delle proprie emozioni e sul dominio della ragione sul sentimento, con il mutare e il rapido venir meno di altri modelli, con una diffusa immaturità affettiva.
Educare all’amore non è compito facile e madre Cristiana descrive i passi compiuti dalla sua comunità per far cadere le maschere dell’egocentrismo, dell’aridità e della paura e favorire la nascita di una reciprocità fedele, di un’integrazione generosa, di una fiducia che afferma l’altro, di una amicizia. Ella espone tentativi e strumenti del cammino educativo, così come si è evoluto nel corso di diversi decenni nella sua comunità, umilmente convinta che ciò possa essere utile anche al di là dello stretto ambito monastico. E riferisce le parole di un monaco trappista spagnolo, il beato Rafael, morto nel 1938 e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1992: “C’è in me molta superbia, molta vanità, molto amor proprio. E tuttavia, ora, mi accade una cosa strana. Certi giorni dopo l’orazione, anche se in essa mi sembra di non sentire proprio nulla, scopro in me un gran desiderio di amare tutti i membri della mia comunità, quasi un’ansia di amarli come Gesù li ama. Così invece di scandalizzarmi della debolezza di un fratello, come sempre mi accadeva, provo per lui una grande tenerezza”.





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