SPY FINANZA/ La “guerra” europea che può fare a pezzi l’Italia

- Mauro Bottarelli

La situazione europea resta difficile e crescono le divisioni riguardo le politiche economiche da mettere in atto. L’Italia, spiega MAURO BOTTARELLI, rischia di pagarne il conto

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Questa volta lo dice Eurostat, non il sottoscritto: prosegue, ma già perde colpi, la ripresa economica dell’area euro. Nel terzo trimestre il Pil ha registrato un incremento dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti, a fronte del +0,3% registrato nel secondo trimestre: la dinamica del Pil nel confronto su base annua ha visto la contrazione attenuarsi al -0,4%, dal -0,6% del secondo trimestre. Il dato sulla crescita congiunturale è in linea con le attese medie degli analisti, quello sulla variazione annua è invece marginalmente più basso. Guardando a tutta l’Unione europea a 28, il Pil ha registrato un +0,2% rispetto al periodo immediatamente precedente, a fronte del +0,3% del secondo trimestre. In questo caso la dinamica su base annua è tornata positiva, con un +0,1% rispetto al -0,2% del secondo trimestre.

Colpisce, però, il rallentamento della Germania, cresciuta dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, quando aveva messo a segno un incremento dello 0,7%. La Francia rallenta con un Pil negativo, -0,1%, a causa dei consumi interni in picchiata, mentre l’Italia, con un calo dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, colleziona ben nove i trimestri negativi congiunturali consecutivi. Insomma, se la cosiddetta ripresa era già parecchio anemica, ora è pallida come un morto. D’altronde, Draghi non avrebbe sfidato il tabù di Weimar tagliando ancora il costo del denaro se la situazione non fosse da allarme rosso.

E che i guai, almeno per l’Italia, possano essere davvero alle porte lo ha confermato negli ultimi due giorni la Borsa, zavorrata dai titoli bancari. Direte voi, prese di beneficio. Non solo. C’è un particolare che quasi nessun organo di informazione ha fatto notare: mercoledì nel primo pomeriggio, quando tutti i mercati europei viaggiavano in profondo rosso, nelle sale trading cominciava a serpeggiare il timore per un “black Wednesday”, ovvero il rischio di un crollo. Detto fatto, il Wall Street Journal rilanciava una frase-bomba contenuta nella sua intervista del giorno precedente a Peter Praet, membro esecutivo della Bce: «Se il nostro mandato è a rischio, prenderemo tutte le misure che pensiamo possano servire a compiere a pieno il nostro mandato. È un segnale molto chiaro, questo. La capacità di bilancio della banca centrale può essere anch’essa usata. Questo include acquisti di assets, come può fare qualsiasi banca centrale».

No, avete capito? Un membro del Consiglio direttivo della Bce dice chiaro e tondo che per stimolare al rialzo l’inflazione, l’Eurotower è pronta potenzialmente a una politica di acquisto stile Fed e le Borse cosa fanno? Rosso. Ieri, le piazze europee erano positive, mentre Milano continuava a scontare perdite. Cosa significa questo? Due cose: o il mercato sconta la frase di Praet come l’ennesima minaccia della Bce, ben sapendo che la Germania non accetterà mai un programma di QE. Oppure – e sarebbe peggio – il mercato sa che quanto sta per arrivare, potenzialmente, potrebbe non essere tamponato nemmeno con un intervento emergenziale come quello. E l’Italia, con il suo rosso solitario a Piazza Affari anche ieri, comincia a mandare segnali inquietanti.

Come vi dicevo la scorsa settimana, Draghi è preoccupato: sa di non avere molti altri bazooka nel suo arsenale e se, quando utilizzati come quello di Praet, fanno l’effetto di un petardo, allora si fa davvero dura. D’altronde, al punto a cui siamo arrivati, non ci sono alternative: o la Bce acquista titoli dagli istituti di credito, stile Fed e immette così liquidità nel sistema da incanalare verso l’economia reale per stimolare un po’ di inflazione, oppure stiamo solo aspettando di capire quale tessera del domino cadrà per prima e quali saranno le seguenti.

La strada di un altro taglio dei tassi, arrivando a zero, non mi pare percorribile, mentre il tasso negativo sui depositi delle banche per forzare a mettere in circolo credito potrebbe non essere poi così efficace: con la crisi che c’è, le sofferenze che devo scontare e gli stress test in vista, chi me lo fa fare di agire sugli impieghi? Pago ma tengo i soldi al caldo, rischiando molto meno.

Per Marc Ostwald della Monument Securities, quanto prefigurato da Praet quasi certamente non potrà accadere: «Sicuramente non si possono ignorare le sue parole, tanto più che si tratta del capo economista della Bce, ma mi pare che questo scenario putativo sia figlio di una strategia ormai nota di Draghi. Prima partire con lo “spin”, ovvero mettere in circolo l’ipotesi ed esplorare in questo modo ogni possibile pertugio attraverso il quale bypassare i limiti del mandato Bce e poi rendere quell’ipotesi in teoria parte del famoso “fare qualsiasi cosa per salvare l’euro”. Detto questo, una simile mossa sarà certamente avversata dalla Corte costituzionale tedesca e dagli stessi partiti che ancora devono formare il nuovo governo di coalizione, la cui unica priorità per ora è evitare la supervisione unica bancaria e l’unione bancaria. Non lo si sta dicendo chiaramente, ma in Germania si sta valutando l’ipotesi di tenere dei referendum sui principali temi europei, quindi includendo l’opinione pubblica – facilmente influenzabile – nel processo decisionale».

Certo, Praet nella sua intervista ha fatto notare come il Trattato di Lisbona all’articolo 123 parli molto chiaro: la Bce non può comprare titoli obbligazionari sovrani, ma potrebbe comprare assets bancari per stimolare l’economia. Insomma, com’è o come non è, il bazooka di Praet non ha per ora affatto sortito l’effetto sperato: il mercato lo ha ignorato bellamente. C’è da preoccuparsi? Forse non nell’immediato, ma certamente l’andamento dei titoli bancari a Piazza Affari è un segnale fin troppo chiaro che c’è tensione. E il dato sul rallentamento del Pil dell’eurozona è sintomatico del fatto che la debolezza del quadro economico Ue rimane enorme, come un lungodegente cui hanno detto che dalla carrozzina poteva passare a fare i cento metri: ovviamente, ne fa cinque a cade.

E l’Italia è l’enorme anello debole di questa catena, troppo forte e importante per essere assimilata a livello macro a Portogallo e Grecia, ma troppo schiacciata dal debito per poter stare nell’Europa di Germania e Francia: e capite da soli che, come nel caso di un catena, quando la si deve spezzare perché occorre liberarsi, tocca tranciare con il tronchese l’anello di mezzo. Ovvero, l’Italia. Fuor di metafora, comincio a pensare che da più parti si sia presa coscienza del fatto che un’eurozona così non è possibile, non funziona. Tanto più che il suo azionista di maggioranza, per la prima volta, si trova sul banco degli imputati per il suo surplus commerciale degno del peggior dumping cinese: pensate che Berlino accetterà di esportare meno, al netto della domanda interna che langue, per fare contenti noi?

Scordatevelo, tanto più che l’altro giorno la Confindustria tedesca ha reagito con durezza alla messa in stato d’accusa delle dinamiche dell’economia, dicendo chiaro che gli altri devono seguire il modello del surplus tedesco, non metterlo in discussione. Insomma, un dialogo tra sordi. E temo che la sparata di Praet, qualcosa di epocale che solo i nostri media – troppo impegnati in morbosi copia-incolla delle telefonate delle baby-squillo di Roma o in fantasiosi retroscena sui destini del Pdl – hanno bellamente ignorato, non farà che peggiorare le cose e accelerare la resa dei conti. I francesi, per bocca di Ken Wattret di Bnp Paribas, hanno salutato con gioia le parole di Praet: «È un cambio radicale di posizione per la Bce, un cambio a cui diamo il benvenuto dal nostro punto di vista. Questo è stato il segnale più esplicito da parte di una membro della Bce che l’espansione dello stato patrimoniale attraverso acquisto di assets è un’opzione nel radar. La pazienza della maggioranza dei membri del Consiglio nei confronti della minoranza occupata unicamente a bloccare ogni mossa, sostanziatasi in una risposta lenta verso la persistente inflazione sotto il livello obiettivo, si è esaurita. E proprio il crollo dell’inflazione in ottobre è stato il detonatore».

Come già detto, dall’Italia silenzio di tomba, qui tocca parlare del Tuc o della Tarsu. In compenso, dalla Germania hanno caricato i fucili a pallettoni. L’ultra-rigorista Hans Werner Sinn, l’uomo che per primo ha messo in guardia la Bundesbank dalle potenziali perdite legate al programma Target2, ha fustigato dalle colonne del Financial Times la scelta della Bce di tagliare il costo del denaro, mentre la Bild si è travestita da tabloid britannico gridando contro la distruzione dei risparmi tedeschi a causa di una Bce a guida italiana. E ancora, Andreas Dombret della Bundesbank ieri mattina ha dichiarato che «i tassi quasi a zero della Bce stanno ponendo rischi per la stabilità finanziaria della Germania». Insomma, guerra totale e nervi sempre più tesi.

Nel frattempo, sempre ieri l’Irlanda ha detto che il 15 dicembre uscirà dal programma di salvataggio senza una linea di credito precauzionale: auguro ogni fortuna a Dublino, ma se vuole tornare a essere la “tigre celtica” dovrà rinegoziare molte cose, sia a livello fiscale che monetario. Ce la farà? Ne dubito. La Grecia vi ho dimostrato che di fatto è fallita di nuovo, il Portogallo sta per seguirla a ruota visto che con quella traiettoria di debito si è infilato in una strada senza ritorno e la Spagna, al netto della contabilità creativa delle sue banche, è ancora in piedi solo perché e banche tedesche sono troppo esposte: fate scendere la cifra di esposizione in area 60-70 miliardi e poi vedrete.

Nel mezzo di questa accozzaglia di economie tenute insieme da quattro Trattati e molto nastro adesivo ideologico, c’è l’Italia. Un Paese messo meglio di altri da certi punti di vista (vedi l’avanzo primario), ma con un debito pubblico enorme e in continua crescita (non ci vuole un genio a capire che se con l’austerity si uccide il Pil, il denominatore, il rapporto non può che salire) e con un sistema bancario che comincia a scontare una traiettoria spagnola sulle sofferenze. Per ora siamo al 7,7% del totale, ma la dinamica è quella di un costante aumento: se si arrivasse in area 10%, dovremo chiedere aiuto come la Spagna?

L’altra sera a Ballarò, Paolo Romani, influente membro del Pdl, ha detto chiaro e tondo che l’Italia non subirà l’onta dell’arrivo della troika, per il semplice fatto che essendo 14ma al mondo per ricchezza privata dei cittadini, se occorrerà abbassare lo stock di debito si potrebbe fare una bella patrimoniale generalizzata una tantum. Ovvero, ha aperto le porte all’ipotesi avanzata dal Fondo monetario internazionale lo scorso mese e subito bollata da tutti come una panzana. Ora, se un esponente di punta e della prima ora del Pdl, da sempre molto vicino a Silvio Berlusconi, arriva a dire una cosa simile, temo che significhi una cosa sola: quella panzana, tanto panzana non è. Anzi, non lo è affatto.

È un’ipotesi sul tavolo, una delle tante ma non troppe che l’Ue potrebbe chiederci in caso di peggioramento della crisi. E ricordatevi, mercoledì nemmeno l’ipotesi di intervento della Bce con acquisti dagli istituti di credito ha risollevato i titoli bancari in Borsa, scossi dalla contemporaneità del dato sulle sofferenze e da un rumor che circola incessante nelle sale trading e che fa paura. Lo scontro, a livello europeo, è tra chi vuole che nulla cambi per non perdere la sua rendita di posizione (Germania) e chi invece se non si ribella oggi resterà schiavo per sempre e a costi sempre maggiori. L’Italia, forse non sapendolo, è a un bivio della sua storia recente. Peccato sia troppo impegnata a occuparsi di baby-squillo e ornitologia politica.





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