INCHIESTA/ Le tre regole d’oro per giudicare Fastweb

- Zaccheo

Pericolo di fuga, possibilità di inquinare le prove, rischio di reiterazione del reato: sono queste le tre condizioni per la carcerazione preventiva non usate nel caso di Silvio Scaglia

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Pericolo di fuga, possibilità di inquinare le prove, rischio di reiterazione del reato: sono queste le tre condizioni alle quali gli italiani si sono abituati a pensare – sin dagli anni d’oro della prima Tangentopoli – che fosse condizionata la carcerazione preventiva chiesta dai pm e concessa dai Gip per gli imputati delle inchieste in cui si indaga su reati non di sangue, non da corte d’assise insomma.

Ebbene, Silvio Scaglia – per simpatico (a pochi) o antipatico (ai tanti che non gli perdonano il successo e gli 800 milioni di euro guadagnati vendendo la sua quota in Fastweb) che sia – era uscito da Fastweb nel 2007, e quindi certo non vi poteva reiterare alcun reato; era stato interrogato la prima (e unica) volta in quest’inchiesta che oggi lo vede recluso a Rebibbia nel febbraio del 2007, tre anni fa, e da allora, con tutto quel ben di Dio di denaro in banca, avrebbe potuto pagare qualunque cifra per comprare il silenzio di qualunque testimone, o la distruzione di qualunque documento.

E infine, quando l’ha raggiunto il mandato di cattura non aveva alcun bisogno di fuggire perché era già lontanissimo dall’Italia, era alle Antille, e invece si è precipitato a tornare per farsi arrestare e poter riparlare con gli inquirenti. Non gli sarebbero certo mancati i soldi per rifugiarsi, che so, in Brasile, un bel Paese da dove non ci estradano un pluriomicida confesso come Cesare Battista, figuriamoci se ci avrebbero mai estradato un sospetto truffatore fiscale laureato in ingegneria…

Ma allora, se quelle tre “regole d’oro” dell’arresto non sussistevano, perché arrestarlo? Perché tenerlo una settimana in isolamento, se non per tornare al vecchio andazzo della carcerazione-estorsiva, del “gabbio” come tortura psicologica che induce i più deboli (non necessariamente i veri colpevoli!) a parlare, se non altro per farsi trattare poi meglio dai pm? Infatti, siamo alle solite. 

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La dignità della persona umana piegata alle esigenze non della giustizia ma di una magistratura-spettacolo, protagonista infaticabile di un “reality” che non conduce assolutamente a nulla – con il 67% delle richieste dei pm che finisce in nulla, perché respinte dai Gip oppure bocciate in primo, o in secondo o in terzo grado, ma che infanga a volte per sempre centinaia di persone per bene. Certo, comportando anche l’arresto di qualche vero delinquente, 33 su 100 o giù di lì. Ma certamente, con simili numeri, l’antico principio del diritto romano, “in dubio pro reo” è sotto le scarpe.

 

Nessun professionista reggerebbe a lungo il proprio ruolo su nessun mercato, se sbagliasse nel proprio agire due volte su tre. I magistrati inquirenti fanno così, e non rischiano niente. Fanno carriera in automatico, per quanti sbagli commettano. E quando gli errori giudiziari vengono scoperti, i risarcimenti sono ridicolo. Mentre la responsabilità civile dei singoli magistrati, votata da un referendum cui parteciparono milioni di elettori, guarda caso non è mai stata regolamentata per legge.

 

Per carità, può essere che Scaglia o i suoi sottoposti siano stati leggeri, o peggio, scorretti nel dar luogo al traffico di connettività telefonica da e per l’estero che nascondeva una maxifrode fiscale: che veniva però consumata dalle terze parti, non da Fastweb né da Telecom Sparkle, ed erano queste terze parti ad avere semmai contatti con i terminali sospetti di mafia; e comunque nessun giornale ha ancora scritto che le società italiane con cui i grandi telefonisti intrattenevano i rapporti diretti avevano tutte fior di certificati antimafia rilasciati a cuore leggero, evidentemente, da colleghi diretti di quei giudici che oggi indagano e ammanettano.

 

E non basta. Sarebbe ora di introdurre in Italia il concetto – e perché no, il reato – di “aggiotaggio giudiziario”. Che le procure, dove i pm più preparati hanno letto si e no tre libri d’economia all’università, si permettano di destabilizzare intere aziende per partite economiche controverse di entità tutto sommato modeste rispetto al giro d’affari complessivo, che addirittura blaterino di commissariamenti che tolgano ai manager le leve gestionali, che seminino il panico tra i piccoli azionisti, i dipendenti, i clienti di quelle società è, diciamolo, francamente inconcepibile. Anche perché questi enormi polveroni quando si riabassano rivelano il nulla sul quale erano stati sollevati.

 

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Sistematicamente è così. Una giustizia assolutamente incartata, decotta, incapace di approdare a nulla, da riformare di sana pianta, se non fosse che a volerla riformare sul serio è soltanto il premier, con il suo partito, che non ha purtroppo una posizione soggettiva di grande credibilità, essendo egli stesso bersaglio delle procure da sedici anni…

 

Mentre la sinistra, che in cuor suo condivide le critiche per le procure forcaiole e inconcludenti, non alza un dito perché pur rimettendoci le penne a sua volta, a ogni pie’ sospinto, come la destra, ha oggi meno da perdere perché ha meno potere, e spera che le toghe facciano quel che gli elettori non vogliono fare, che cioè spazzino via Berlusconi e i suoi, restituendole quel peso che le urne le hanno prevalentemente tolto. Se ne uscirà in qualche modo sensato e pulito? E’ improbabile.

 

L’organismo sociale e istituzionale italiano ha ormai anticorpi troppo deboli per superare simili crisi e approdare tutti insieme a soluzioni condivise. Se qualcosa di nuovo accadrà, è più probabile – per quanto paradossale e anche cinico possa sembrare dirlo – quando l’era-Berlusconi sarà finita e l’anomalia di questo personaggio così atipico, geniale ma controverso e ingombrante sarà cessata. Peccato, peccato davvero che non si possa fare qualcosa di meglio, prima.





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