GEO-FINANZA/ La crisi che mette a rischio (anche) i mondiali di calcio

- Mauro Bottarelli

Il Brasile è teatro in questi giorni di proteste della popolazione, ma anche la situazione economica-finanziaria del Paese non è floridissima. L’analisi di MAURO BOTTARELLI

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Il Brasile brucia. E non per il caldo. Un’ondata di manifestazioni di protesta sta scuotendo il Paese e preoccupa il governo di sinistra della presidente, Dilma Rousseff, la quale ha tentato di abbozzare, affermando che «le manifestazioni pacifiche sono legittime, è prerogativa dei giovani manifestare». Ma per quale motivo scendono in piazza i ragazzi brasiliani? I manifestanti, centinaia di migliaia in almeno undici città del Paese, protestano contro l’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici (ritirato ieri dai sindaci di Rio e San Paolo per evitare che i cortei degenerassero in violenze) e contro le spese del governo per l’organizzazione della Confederations Cup, cominciata sabato scorso e dei Mondiali di calcio del 2014. Insomma, pare che i ragazzi siano più saggi di chi li governa. E che abbiano capito la lezione greca, visto che fu proprio la sbornia di grandeur per l’organizzazione delle Olimpiadi del 2004 a dar il via alla politica di swap e derivati allegri che hanno scassato i conti del Paese.

E proprio come Atene nove anni fa, il Brasile sta puntando tutto sui contratti derivati per cercare di fermare il crollo del real e la fuga di capitali. La Banca centrale – la stessa che il 30 maggio scorso ha alzato i tassi d’interesse dal 7,5% all’8%, dopo un altro aumento dello 0,25% in aprile – ha speso 5,7 miliardi di dollari per difendere la sua valuta questo mese, ma, stranamente, soltanto la metà di quella cifra appare nei dati relativi alle riserve. Come mai? Perché il resto si è tramutato in un bello swap, per l’esattezza “swap cambial” futures, con redenzione in agosto e settembre: in parole povere, uno swap valutario solitamente molto utilizzato dalle aziende esportatrici per coprirsi dai rischi di fluttuazione dei cambi di valuta estera.

Insomma, il Paese è sotto attacco speculativo, vede diminuire le proprie riserve velocemente e il governo che fa? Fa vedere ai mercati che è in un angolo, con le spalle al muro: il corrispettivo di mostrarsi timoroso di fronte a un cane che abbaia. Anche perché le riserve brasiliane, 375 miliardi di dollari, potrebbero rivelarsi uno scudo inadeguato se la fuga di capitali aumentasse di volume, replicando quanto accaduto alla Russia durante la crisi Lehman del 2008, quando andarono in fumo 210 miliardi di dollari di riserve. E che la situazione stia peggiorando alla velocità della luce, lo dimostra il timing delle scelte governative.

Soltanto un mese fa il Brasile stava lottando affinché il real non si apprezzasse troppo, dando vita a una guerra valutaria per bloccare i flussi sempre crescenti di denaro in libera uscita dalle varie banche centrali. Questa settimana ha invece eliminato la tassa dell’1% sui derivati valutari e quella del 6% sugli investitori in bond esteri. Alla base della crisi sempre il timore – confermato mercoledì – che la Fed ponga fine al suo programma di stimolo dell’economia, una paura diffusa visto che la scorsa settimana l’Indonesia ha alzato i tassi di interesse per la prima volta da due anni a questa parte. Insomma, si comincia a tornare con i piedi per terra. E a valutare la possibilità di cadere e farsi molto male.

Gli investitori, al 5 giugno scorso, avevano ritirato 1,5 miliardi di dollari dai fondi obbligazionari sui mercati emergenti, mentre gli equity funds EM (emerging markets) hanno registrato un calo di 5 miliardi, il più grosso deflusso di denaro da oltre due anni. E il Brasile appare tra i paesi più vulnerabili, con livelli sostanziali di credito domestico in eccesso, loan-to-deposit ratio alta all’1,6 e il budget di bilancio primario, ovvero dopo il pagamento degli interessi, pesantemente deteriorato tra il 2009 e il 2012.

Molti analisti sottolineano però un dato per instillare un po’ di ottimismo, ovvero il fatto che lo shock obbligazionario per i paesi emergenti non dovrebbe essere troppo prolungato, vista l’esposizione a lungo termine di banche centrali e grandi istituzioni finanziarie, come i fondi pensione. In effetti, la percentuale di bonds dei Paesi emergenti in mano straniera è passata dal 15% al 37%, un grosso incremento che dovrebbe deporre a favore di una strategia di almeno medio periodo. Ma si sa, come l’eurozona insegna, le sell-off e lo scarico di detenzioni non sono più un qualcosa di straordinario, soprattutto sul mercato sovrano. Essendo poi le banche e le aziende brasiliane le principali beneficiarie dell’enorme afflusso di liquidità piovuta sui mercati emergenti, uno stop improvviso avrebbe un impatto pesante sui settori maggiormente esposti alla leva e con bassa liquidità a bilancio: in primis, i settori dei metalli e minerari. Il real, inoltre, ha perso oltre l’1% sul dollaro in un mese e oltre il 10% da marzo.

E se, paradossalmente, alcuni mercati emergenti salutano con gioia la svendita delle loro valute, il Brasile appare una delle poche eccezioni, insieme all’India: il timore ha un nome, inflazione, già oggi al 6,3% nei prezzi al consumo. Particolarmente colpito il settore degli alimentari, a causa di shock nelle forniture, ma anche il dato dell’inflazione core rimane ancorato al 6%, agganciato a forti dinamiche del reddito: serve quindi un rallentamento più marcato per stabilizzare la situazione. C’è poi la perdita di competitività sull’export, con il costo in dollari di beni manufatti esportati dall’America Latina che è salito del 25% dal 2004, mentre quelli dalla Cina e dal resto dell’Asia solo del 5%. Inoltre, dopo anni di crescita turbo almeno fino al 2010, +7,5%, il Brasile lo scorso anno ha registrato un misero +1% e quest’anno non dovrebbe fare molto meglio, tanto che Standard&Poor’s ha già avvisato il Paese che potrebbe abbassare il rating del suo debito.

Netto anche il giudizio di Neil Shearing, capo economista per i mercati emergenti alla Capital Economics di Londra: «C’è un’ampia serie di argomenti strutturali che stanno per limitare la capacità del Brasile di conoscere un altro boom come quello vissuto, almeno nel breve periodo». Una situazione, quella brasiliana, che ha due chiavi di lettura: ora che è in atto la sell-off sui mercati emergenti, è il momento di comprare? Insomma, i titoli delle aziende brasiliane sono ora un’opportunità, dopo anni e anni di sbornia da crescita infinita e prezzi alti?

Certo, i problemi come avete visto non mancano, ma stiamo pur sempre parlando di un’economia con piena occupazione e con consumi, per ora, ancora solidi. La Borsa brasiliana ha perso il 13% da inizio mese e il 19% da inizio anno, contro un -9% dell’indice Msci dei mercati emergenti. Ovviamente, però, dove c’è un’opportunità, c’è anche un rischio, un azzardo: i titoli che offrono oggi un maggior valore rispetto ai picchi sono proprio i minerari come Vale e i bancari come Unibanco, proprio i settori più a rischio sulla leva e più esposti a una fuga di capitali esteri. Non a caso Morgan Stanley resta underweight sulle equities brasiliane, proprio per i timori sull’outlook macro e per i rischi legati alla valuta. Ora, con la Fed che intende prima rallentare e poi chiudere il programma di stimolo massimo entro un anno, vedremo se la fuga di capitali prenderà una traiettoria russa o no.

Certo, se si unisce allo shock valutario quello che potrebbe essere innescato dal combinato disposto di volatilità nel prezzo delle commodities (di cui il Brasile è grande produttore ed esportatore) e contrazione della domanda sia interna che estera, allora vedo a forte rischio una ripresa. E, forse, anche i mondiali di calcio.

 

P.S.: Timori confermati: l’indice flash Pmi di Hsbc sull’attività manifatturiera cinese ha segnato un deludente 48,3, peggio del 49,2 del mese di giugno e ai minimi da nove mesi. L’economia della Cina è ufficialmente in contrazione. Ma, paradossalmente, non è questo il dato peggiore che riguarda il gigante asiatico. Detto fatto – complici anche le parole di Bernanke sul programma di stimolo, sulle cui conseguenze non mi sono espresso nella rubrica odierna perché tema di almeno una decina di articoli nelle scorse settimane, cui non va per ora aggiunto granché -, il tasso repo a un giorno è letteralmente esploso al 25% e il rendimento del bond a tre anni è schizzato di 39 punti base al 3,749%. Inoltre, stando a un rumour messo in circolazione da Hao Hong, capo del team strategico della Bank of Communications, ieri la Banca centrale cinese avrebbe utilizzato il programma d’emergenza “targeted liquidity operations” per fornire 50 miliardi di yuan a una banca del Paese, presumibilmente sull’orlo del default. La Bank of China ha ovviamente smentito, ma si sa, la trasparenza non è esattamente una prerogativa delle autorità cinesi. Ora si balla davvero.





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