IL CASO/ Lo “spread” che l’Italia non riesce a ridurre

- Gianfranco Fabi

La questione meridionale è vecchia quanto e più dell’Italia. Capire perché il Sud è rimasto indietro e come può recuperare terreno è utile a tutto il Paese, spiega GIANFRANCO FABI

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La questione meridionale è vecchia quanto e più dell’Italia. Ed è stata oggetto di analisi storiche, sociali ed economiche che hanno periodicamente caratterizzato il dibattito politico italiano. Con periodi in cui il Sud è parso essere in primo piano e altri in cui il tema sembrava nascondersi dietro altre e più stringenti priorità. In questa fase possiamo probabilmente dire che il Sud rimane sullo sfondo: entra nei discorsi politici con stanca ritualità, quasi fosse un tributo da pagare o un dovere più morale che effettivo.

Eppure il Sud rimane proprio in questa fase economica uno dei grandi problemi che l’Italia deve affrontare se vuole veramente uscire dalla crisi. Perché ci sono, con tutta evidenza, due modelli profondamente distanti. Da una parte c’è il Nord con in parte la fascia adriatica e alcuni distretti industriali del Centro, che si muovono sulla strada dell’internazionalizzazione e che con questa strategia riescono ad avere risultati confortanti sul fronte dello sviluppo soprattutto industriale. Dall’altra parte c’è praticamente tutto il Sud, con pochissime eccezioni, che continua a marciare sul posto, che non riesce a uscire dalla logica dell’assistenzialismo e della protezione statale.

Il risultato lo si può vedere nei tassi di disoccupazione: tra il 7% e l’8% al Nord (cinque punti meno della media italiana), tra il 18% e il 20% nel Mezzogiorno, con punte drammatiche per quanto riguarda la disoccupazione giovanile che ha superato il 50%. In Calabria, Campania e Sicilia la disoccupazione supera quota 20%.

Il minimo che si può dire è che l’Italia è sempre più divisa in due e che le politiche, centrali e regionali, attuate negli ultimi anni non hanno saputo dare una risposta alle esigenze del Sud. È allora importante chiedersi “Perché il Sud è rimasto indietro”, come nel libro (Ed. Il Mulino, pagg. 260) che ha questo titolo e che è stato scritto da Emanuele Felice, un uomo del Mezzogiorno che ora insegna Storia economica all’Università Autonoma di Barcellona. Un libro innanzitutto storico che ripercorre, dai Borbone a oggi, le tappe della realtà del Sud e i motivi per cui si può e si deve continuare a parlare di questione meridionale. Un libro che tuttavia conduce pagina dopo pagina anche a dare un risposta alla domanda: quale potrà essere il futuro del Mezzogiorno?

L’analisi del prof. Felice non è particolarmente ottimista: tutto lascia credere che “il Sud continui a scivolare indietro, lentamente ma inesorabilmente, in pressoché tutti gli indicatori della modernità”, anche perché i giovani più preparati e coraggiosi stanno sempre di più scegliendo la strada dell’emigrazione non solo al Nord, ma anche verso il Nord Europa, con Gran Bretagna e Germania ai primi posti.

L’alternativa tuttavia, almeno in teoria, esiste: è quella del riscatto. “Ovvero – spiega Felice – rifondare la vita civile e le istituzioni così da renderle inclusive, avviando in questo modo un autonomo processo di modernizzazione attiva: una modernizzazione che forse aiuterebbe l’Italia tutta a uscire dalle secche in cui è finita”. Questo non vuol dire che il futuro del Sud è nelle sue mani, e quindi può essere abbandonato a se stesso, ma vuol dire che è un compito fondamentale degli stessi uomini del Mezzogiorno mettere a frutto le loro grandi potenzialità sfruttando in chiave moderna le istituzioni italiane ed europee.

Questo allora vuol dire legalità, strutture sociali, cultura del merito e della società aperta, innovazione, partecipazione: tutti elementi che la dimensione nazionale può e deve sostenere, ma in cui i protagonisti devono essere responsabilmente i diretti interessati. Per questo è necessario continuare a parlare sempre più del Mezzogiorno. E magari diffidare dei meridionalisti.





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