SCUOLA/ Il latino e il greco? Non cadiamo nella “trappola” dello zoo

- Giuseppe Botturi

GIUSEPPE BOTTURI insegna latino in una scuola media del Canton Ticino (CH). Un “modello” che insegna molte cose a chi vuole rendere opzionali certe materie a casa nostra

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Quando, due anni or sono, iniziai a insegnare latino in una scuola media del Canton Ticino, fui sorpreso di sapere che avrei avuto a disposizione un monte ore da fare invidia a un liceo italiano. La scuola media ticinese dura quattro anni, così che al compimento del quattordicesimo anno di età e in concomitanza con la conclusione del ciclo di studi, gli studenti abbiano assolto l’obbligo scolastico e possano liberamente scegliere di non frequentare una scuola superiore, dedicandosi invece a corsi di  formazione professionale, la cui offerta è ampia e variegata. In questo contesto all’insegnamento del latino sono riservate due ore settimanali in terza media, e ben quattro in quarta media; ho scoperto di recente, tra l’altro, che fino a pochi anni fa il numero complessivo di ore nell’arco di questi due anni era ancora superiore. Le premesse al mio insegnamento erano dunque delle migliori, e mi lasciavano la curiosità di capire perché la materia in questione godesse di tanta considerazione.

Ancora più sorprendenti sono state le risposte alla domanda che pongo ogni anno alla prima lezione con gli studenti di terza media: “Perché volete studiare latino?”. Bisogna infatti sapere che la materia è facoltativa e che il voto di  profitto non fa media in pagella. A me, insegnante in trepida attesa delle parole rivelatrici di nobili propensioni culturali, e con la mente già sprofondata nelle glorie dell’antichità romana e della civiltà medievale, viene puntualmente risposto: “Perché da grande voglio studiare medicina, biologia, diritto, … e mi hanno detto che il latino è necessario”. Sarà per mia ignoranza, ma a una simile risposta proprio non avevo pensato! Ammetto che anch’io regalai a un compagno di liceo che si era iscritto alla facoltà di medicina un libro contenente le etimologie greche e latine dei termini medici; però lo feci proprio come gesto di stima e incoraggiamento nei suoi confronti, senza credere che il mio dono avrebbe influito in maniera decisiva sull’esito dei suoi studi. A quanto pare, invece, i miei studenti la pensano davvero così. Questo significa che da parte di genitori e insegnanti viene veicolata l’idea che il latino una qualche importanza ce l’abbia, e anzi addirittura un certo prestigio; tale valutazione non coincide di certo con il mio giudizio in materia – io infatti ritengo che il latino abbia valore perché è la chiave privilegiata d’accesso al ricchissimo patrimonio culturale dell’occidente -, però su un punto mi trovo in accordo con i miei studenti: il latino non è una materia inutile. È già un inizio rassicurante e non scontato.

Le dolenti note iniziano a farsi sentire quando si entra in merito al lavoro quotidiano. Occorre infatti tenere presente che la scuola media ticinese prevede quasi quaranta ore di lezione settimanali, impegnando così gli studenti dalle otto della mattina alle cinque del pomeriggio quasi tutti i giorni. Si capisce facilmente che tale griglia oraria non lascia molto tempo a disposizione per l’assimilazione personale – tramite lo studio e gli esercizi – dei contenuti; a ciò si aggiunga il già ricordato statuto speciale del latino come materia opzionale, e il fatto che essa richiede oggettivamente un impegno non indifferente per essere appresa, in termini di costanza del lavoro e anche di tempo. Il risultato è che, non appena gli studenti si rendono conto che l’entusiasmo o la curiosità iniziale non sono sufficienti per imparare, una buona parte di essi rinuncia a lavorare sul serio. 

La cosa in sé non mi sorprende; penso a che cosa succederebbe nei licei italiani se il latino fosse reso facoltativo: quanti studenti ne proseguirebbero volontariamente lo studio dopo il primo anno? Non pochi, credo, ma neppure molti. Dal punto di vista didattico, la situazione presenta una sfida interessante: se da un lato è chiaro che non posso esigere dagli studenti un livello di lavoro come se insegnassi in un liceo italiano, è altrettanto vero che non posso sfrondare i contenuti né semplificare l’insegnamento o addolcire la valutazione al di sotto di una certa soglia, poiché in tal caso comprometterei la materia in sé e non starei più insegnando latino, ma condirei semplicemente una brodaglia antiquata, priva di reali contenuti e di valore formativo per gli studenti. Nel complesso, la questione non è semplice, ed esige da parte mia una continua attenzione alla situazione delle classi, per poter dosare opportunamente il lavoro.

Se devo quindi trarre una prima conclusione e dire qual è il punto debole dell’insegnamento del latino nel contesto dove opero, esso consiste nell’orizzonte all’interno del quale si colloca. Esso è circondato, per certi riguardi più che in Italia, da un’aura di raffinatezza, e però non è proposto in termini adeguati quale materia di studio: fare leva principalmente sulla voglia e il gusto degli studenti non è la condizione che rende possibile un reale apprendimento, che porti anche eventualmente con sé il piacere di imparare. La mia esperienza non fa che confermare quanto constata un documento citato nell’articolo di Enrico Tanca del 29 febbraio 2012: “Ormai in quasi tutti i paesi europei quel genere di studi [classici] era stato rinchiuso in una specie di nobile zoo, un museo di viventi da ostentare, con l’orgoglio con cui si mostrano antichi gioielli di famiglia. (…) Si comincia con il renderle opzionali [le discipline classiche] nei curricula delle scuole medie, ponendole in alternativa con discipline di più immediata spendibilità…”. 

 

Non mi sento tuttavia di affermare che, pur a queste condizioni mortificanti, l’insegnamento della lingua latina sia inutile. Essa è comunque, di per sé, una materia che può portare gli studenti a un livello di riflessione e a una profondità di pensiero che altre materie non offrono; ricercare il significato e l’etimologia delle parole, conoscere la struttura delle frasi e riuscire ad accostare alcuni testi, semplici ma non banali (né di forma né di contenuto), è un arricchimento prezioso per un giovane. Anzi, proprio il fatto che la dimensione umanistica dell’insegnamento è spesso tacitata dal prevalere di una concezione funzionalistica dello studio (per cui in fondo conta quanti esercizi si sanno risolvere, in tutte le materie), rende il contributo speculativo del latino ancora più significativo. Vale la pena di far propria l’esortazione della Sibilla a Enea: Tu ne cede malis sed contra audentior ito/quam tua te fortuna sinet (“Non tirarti indietro dalle avversità, ma fatti sotto con più audacia di quanto la tua sorte ti permetta”, Aen. VI, 95-96). Se ce l’ha fatta Enea a scendere agli inferi e a ritornare, non sarà anche possibile insegnare un po’ di buon latino alle medie?







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