Iraq: cinque anni dopo la caduta di Saddam, un paese in preda alla paura

- int. Shlemon Warduni

In un’intervista esclusiva a ilsussidiario.net Mons. Warduni (Vescovo ausiliare di Baghdad) racconta la difficile situazione della popolazione cristiana irachena, anche alla luce dei recenti sanguinosi fatti di cronaca

Statua-Saddam-abbattuta_FN1

Era il 9 aprile del 2003 quando le truppe americane riuscirono a liberare Baghdad, costringendo alla fuga Saddam Hussein. Le immagini dell’abbattimento della statua del Rais fecero il giro del mondo, segnando di fatto la fine del regime.
Si pensava che il processo di trasformazione dell’Iraq da dittatura a democrazia potesse essere rapido e indolore. Ma non è stato così. Ancora le truppe alleate sono impegnate nel paese, il cui governo è ancora instabile e incapace di garantire la sicurezza della popolazione. Troppi ancora sono gli attentati e le morti che colpiscono i civili e, anche di recente, i religiosi presenti in Iraq. Pensiamo all’Arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Rahoo, rapito e ucciso dai terroristi, o al prete ortodosso Youssef Adel morto sotto i colpi di arma da fuoco.
Per meglio capire come sta vivendo questo momento la comunità cristiana irachena, e quanto la situazione sia cambiata rispetto a cinque anni fa, abbiamo intervistato il monsignor Shlemon Warduni, Vescovo ausiliare di Baghdad.

Eccellenza, sono passati 5 anni dalla caduta del regime di Saddam Hussein, come giudica la situazione attuale del Suo paese e delle comunità cristiane in particolare, dopo i recenti episodi sanguinosi?

La situazione generale è decisamente peggiorata rispetto a cinque anni fa. Come e perché questo sia accaduto non possiamo saperlo con certezza: insieme all’aumento del terrorismo dobbiamo registrare che molte cose – che col tempo si pensava sarebbero andate sempre meglio – in realtà sono peggiorate. Anche la situazione particolare dei cristiani rispecchia la tragicità di questo momento storico: sono stati uccisi molti capi religiosi come il Vescovo Rahho, molti sacerdoti, suddiaconi, cattolici, ortodossi e protestanti.
Questa violenza ha inevitabilmente portato con sé una massiccia emigrazione dal Paese. Non si è tranquilli, si ha paura: degli attentati, delle autobombe e soprattutto dei rapimenti. I rapimenti sono la cosa più terribile, perché in essi la persona viene umiliata e trattata in un modo che non corrisponde al suo essere creata a immagine di Dio (tratto comune tanto all’idea occidentale quanto a quella orientale di uomo). Chi viene rapito viene spogliato di tutti i suoi diritti. Questa è la situazione nella quale viviamo, ed è un miracolo che dopo cinque anni siamo ancora qui, perché non esiste la legge, non esiste un governo forte: tutti noi siamo in costante pericolo di essere sequestrati o attaccati.

Ma con Saddam Hussein la situazione era migliore?

Non è possibile confrontare agevolmente i due casi, ma è certo che all’epoca si viveva senza questa paura, senza questa drammatica situazione per cui uno ha paura di uscire in strada, di tornare a casa tardi, di andare a scuola, al mercato o al lavoro. La paura delle bombe, degli attentati, e così via: tutto questo prima del 2003 non c’era. I cristiani potevano andare in Chiesa senza paura, mentre adesso bisogna pensarci bene prima di andarci, perché può succedere di tutto. È la situazione generale ad essere tragica, ma le condizioni dei cristiani sono particolarmente difficili. La responsabilità di far fronte a questa situazione spetta agli alleati, a quelli che hanno occupato l’Iraq, ai paesi arabi e a tutte le nazioni del mondo.

In questo clima di terrore quali possibilità di dialogo ci sono con i musulmani?

Noi dialoghiamo sempre, parliamo con i nostri vicini di casa, con i nostri amici musulmani senza problemi: il pericolo è dato dai “fuorilegge”, che rappresentano numerose eccezioni alla regola. Occorre sottolineare che questo spirito di odio contro i cristiani molto spesso viene da fuori, da paesi esterni all’Iraq, perché generalmente con gli iracheni stiamo bene. I responsabili dei recenti omicidi di religiosi cristiani sono per lo più stranieri. A volte però il nostro essere una minoranza ci espone agli attacchi di fanatici che, oltre a compiere atti di violenza, ci rinfacciano che l’Iraq non è il nostro Paese. A loro rispondiamo che questo è il nostro Paese da prima di loro. Ad ogni modo, la situazione è così complicata che se uno non la vive in prima persona non può giudicarla veramente.

Quale messaggio vuole rivolgere ai nostri lettori?

Chiedo loro di pregare Dio, perché solo il Signore può risolvere il nostro problema con le Sue grazie e solo Lui può illuminare la mente dei responsabili di tanta violenza: pregate per loro, per tutto l’Iraq e per noi cristiani.





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