DIECI GIORNI SUONATI/ I Black Crowes e John Mellencamp al “magic castle” di Vigevano

- Paolo Vites

A Vigevano si è tenuto nel mese di luglio il festival Dieci Giorni Suonati. IlSussidiario ha seguito le esibizioni di Black Crowes e John Mellencamp. La recensione di PAOLO VITES

MELLENCAMP_r400 John Mellencamp con la moglie Meg Ryan

Il “magic castle”, citando una nota composizione di Jimi Hendrix, è per il mese di luglio il Castello di Vigevano, giusto dietro la straordinaria Piazza Ducale del piccolo comune lombardo alle porte di Milano. Qui si tiene per la seconda volta “Dieci giorni suonati”, finalmente un festival rock a misura d’uomo (le zanzare tigre che infestano la zona non sono a misura d’uomo, ma d’altro canto non sono neanche da addebitarsi all’organizzazione, piuttosto dovrebbe pensarci il comune…), in una cornice architettonica, splendida, tra verde e antichità, stand gastronomici e non distributori automatici di prodotti preconfezionati, un’area che contiene al massimo tremila spettatori, dunque a misura d’uomo.

Senz’altro in questa estate 2011 “Dieci Giorni Suonati” (che si concluderà il 24 luglio con il concerto del surfista Jack Johnson) non solo per queste caratteristiche che sono comunque iondamentali per una sana fruizione della musica live, ma anche per il cartellone artistico proposto, si porta via la palma di miglior festival estivo italiano, lasciando indietro eventi come Rock in Idrho ìo il più blasonato Milano Jazzin’ Festival che quest’anno sta richiamando scarso pubblico e artisti ormai agli sgoccioli (un esempio su tutti il Lou Reed che faticava anche a salire sul palcoscenico). A Vigevano invece ci sono state date uniche (il leggendario chitarrista inglese Jeff Beck) o anteprime assolute, la prima volta in Italia dell’americano John Mellencamp. Noi di questo festival abbiamo vissuto due appuntamenti, il 7 luglio con i Black Crowes e il 9 appunto Mellencamp.

I Black Crowes tornavano in Italia dopo dieci anni esatti di assenza: con l’ingresso nella band del giovane chitarrista Luther Dickinson (visto con i suoi North Mississippi All Star circa un mese fa al Blue Note di Milano) si sono confermati l’ultima autentica rock band americana. Hanno suonato un’ora e mezza (qualcuno ha storto il naso per la brevità di un set che normalmente arriva anche a tre ore, ma loro si sono giustificati dicendo che era la  prima serata dopo sei mesi di interruzione del tour) sciorinando l’essenza di tutto quello che di meglio il rock americano ha prodotto negli ultimi trent’anni, e cioè Grateful Dead (improvvisazione di stampo psichedelico), Allman Brothers Band (radici blues e jazz) e The Band (intrecci vocali di puro stampo folk). Solo undici brani in scaletta, ma alcuni di essi sono andati avanti anche per venti minuti, ad esempio l’incredibile Wister Time autentica jam con intrecci tra pianoforte elettrico e le due chitarre, quella di Dickinson e quella di Rich Robinson, con crescendo e cambi di tempo che hanno fatto balenare quella che deve essere stata la dimensione sonora di una notte in storici locali come il Fillmore East di New York, quando l’improvvisazione sfrenata era l’essenza della musica rock.

Ma i Black Crowes sono anche una purissima rock’n’roll band, e lo si è visto con l’iniziale Sting Me, la ripresa di Hard to Handle di Otis Redding e la conclusiva Remedy. In mezzo un tributo al rock sudista, quel country soul reso immortale dal gruppo degli anni 70 Delaney and Bonnie, e cioè Poor Elijah/Tribute to Johnson. Musica americana totale dunque, cose che in Italia si vedono appunto ogni dieci anni.

E trent’anni si è dovuto invece aspettare per vedere in azione John Mellencamp, considerato negli anni 80 l’alter ego di Bruce Springsteen, come lui esponente del cosiddetto “blue collar rock”, il rock della classe operaia. In Italia non era mai venuto perché, si dice, dopo un passaggio promozionale al programma Domenica In a inizio carriera, era rimasto così inorridito dal comportamento di Pippo Baudo da giurare di non rimettere più piede a casa nostra. Evidentemente con gli anni si è convinto che il pubblico italiano non è fatto di tanti Pippo, e così l’ostracismo è finalmente cessato.

Fondatore insieme a Willie Nelson e Neil Young di Farm Aid, il concerto benefico che si tiene da oltre vent’anni in America e il cui incasso viene devoluto ai contadini in crisi, segno di appartenenza a quello che è da sempre il vero cuore degli Stati Uniti, la famiglia contadina, Mellencamp, oggi sessantenne e fresco sposino dell’attrice Meg Ryan, si tira dietro il soprannome di Little Bastard non a caso. Nel concerto di Vigevano ha voluto propinare al pubblico, prima dell’esibizione, oltre un’ora di film documentario su se stesso, un gesto che è apparso eccessivamente auto referenziale e soprattutto noioso, con l’anticipazione che i circa tremila avevano per vederlo piuttosto in carne e ossa sul palco.

Una volta sul palco però ha fatto dimenticare ogni cosa, anche le zanzare. Ha aperto con una roboante Authority Song, un po’ il suo manifesto: “Ho combattutto contro il potere, ma il potere ha vinto”. La voce nerissima, diventata con gli anni simile a quella di un James Brown, ha poi virato la prima parte dello show verso una celebrazione folk di classe altissima.

Brani della sua recente produzione di intensità strabordante, che sembravano uscire dalle pagine di Woody Guthrie e Robert Johnson, ugualmente riferiti come erano al folk più verace e al blues  più harcdore e dove con nonchalance tra uno e l’altro gettava sue vecchie hit, ad esempio una rilettura commovente di stampo country di Jack and Diane, oppure pagine di quotidianità rurale come Check It Out e Cherry Bomb (in versione addirittura a cappella, impreziosite dal volino della bravissima Miriam Sturm o da ceselli raffinati di fisarmonica. In questa parte dello spettacolo si è potuta ammirare anche la qualità sonora, qualcosa di mai sentito prima in Italia: erano le coordinate della mitica Sun Records di Sam Phillips, quella dove Elvis e altre eggende del rockabilly avevano mosso i primi passi a Memphis, Tennessee, quelle che Mellencamp e band stavano replicando in modo impressionante. Con le luci ridotte a pochi fari giallastri e rossastri, e un buio che amoniva a farla da padrone, su quel palco era come vedere sfilare uno dpo l’altro i giganti che hanno dato vita alla grande storia del rock’n’roll: Mellencamp li ha evocati in un modo che solo Bob Dylan altrimenti saprebbe fare Da brivido.

Quando poi è rimasto da solo all’acustica, ha presentato una rilettura scarna e di livello emozionale altissimo del suo più celebre hit, Small Town. Un po’ come quando Springsteen faceva la sua Born to Run in chiave acustica, ha voluto testimoniare che il rock può anche invecchiare con dignità e onestà, comunicando, in forma diversa, tutta la sua urgenza e il suo mistero. Acustica è stata anche la toccante Jackie Brown, mentre prima di Longest Days parlando di sua nonna morente con un raccontino degno di un film americano, ha rilasciato un monito che vale una esistenza: “La vita è corta, anche nei suoi giorni più lunghi”.

Quindi il finale dove ha tirato fuori tutta la sua rabbia rock, infilando una dopo l’altra Rain on the Scarecrow, Crumblin’ Down, la travolgente Pink Houses (“ain’t that America”) e quindi una potentissima R.O.C.K. in the Usa, dove a un certo punto ha fatto salire un ragazzo delle prime file e gli ha permesso di cantarne una strofa intera per poi unirsi a lui nel ritornello. Ebbene, l’immagine di un ventenne italiano abbracciato a un sessantenne americano che in Italia conoscono giusto quei tremila che erano lì, è stata l’immagine più bella a testimoniare la verità immortale della musica rock: la manifestazione evidente, foss’anche per i pochi minuti che dura una canzone, di quanto di più bello il cuore dell’uomo, a ogni età e a ogni latitudine, è in grado di contenere.





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